“Tutti gli attori politici – sia a livello nazionale, sia europeo – devono fare la loro parte” per consolidare l’euro, aumentare la crescita potenziale e ridurre l’indebitamento. Lo ha affermato Mario Draghi, presidente della Bce, intervenendo di fronte al Parlamento finlandese. Il governatore ha aggiunto che le prospettive di ripresa dell’Eurozona “sono circondate da diversi rischi al ribasso”. Ne abbiamo parlato con Leonardo Becchetti, docente di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.
Che cosa ne pensa dell’appello di Draghi?
La Bce è arrivata tardi, perché la politica di allentamento monetario negli Usa è iniziata sei anni fa, quindi è stata molto più tempestiva. In Europa invece non siamo ancora arrivati all’acquisto di titoli pubblici, che sarebbe fondamentale. Com’è avvenuto negli Stati Uniti, sarebbe inoltre necessaria una politica fiscale di investimenti pubblici che sembra essere all’orizzonte con il piano Juncker. Quest’ultimo però presenta molte incognite.
Che cosa non la convince?
Le mie perplessità riguardano soprattutto il cosiddetto “effetto leva”. È possibile moltiplicare per 15 le risorse di una nuova banca, ma questo funziona soltanto se poi i progetti hanno un rendimento. Altrimenti non si possono raccogliere sul mercato privato le risorse che servono per finanziarsi, per ristrutturare scuole, per risistemare il territorio idrogeologico. Altre due necessità sono state sottolineate nell’appello “Per una Bretton Woods europea”.
Di che cosa si tratta?
In primo luogo occorre una ristrutturazione del debito che ridurrebbe di molto l’onere per tutti i paesi membri. Inoltre, c’è bisogno sicuramente di un sussidio di disoccupazione europeo. L’Europa non può mettere in comune solo la moneta, prescindendo da un’armonizzazione delle politiche fiscali. Sono tutte cose che vanno fatte insieme, e quindi avere fatto un passo e non gli altri è un limite molto grave che adesso stiamo pagando.
Draghi dice che tutti devono fare la loro parte. Il governo italiano sta facendo abbastanza?
Il governo italiano sta facendo abbastanza sul piano della politica interna. Noi dobbiamo recuperare svariati gap rispetto alle economie del Nord Europa, ma alcune cose si possono fare più velocemente, per esempio ridurre i costi della giustizia civile. Altre questioni richiedono sicuramente più tempo, come la banda larga e la necessità di colmare il differenziale relativo all’istruzione tra l’Italia e il resto d’Europa. Ma tutto ciò non è sufficiente.
Perché ritiene che le riforme interne non bastino?
La cosa più urgente che il governo deve fare è continuare a fare pressione in modo deciso nei confronti dell’Europa. Non ci si deve accontentare delle dichiarazioni sul piano Juncker, ma continuare a spingere perché dopo questo piccolo successo si facciano degli altri passi avanti. Occorre arrivare a dire che o si attua una vera e propria politica europea, oppure non ci potremo più permettere il privilegio di avere una moneta unica in quanto i costi per l’Europa del Sud sono troppo alti.
Quando Renzi critica l’austerità europea, le sue sono solo parole o c’è dietro una strategia?
La posizione italiana è genuinamente contro l’austerità. Il problema poi è che occorre l’abilità politica per portare a casa dei risultati. Qualche piccolo risultato sta arrivando, perché le cose si muovono, ma ci vuole molto di più. Sarebbe anche opportuno prospettare uno scenario alternativo. Qualora queste riforme non fossero attuate, occorre una divisione in due aree valutarie tra Europa del Nord e del Sud.
(Pietro Vernizzi)