Dopo giorni di attesa febbrile, i risultati dello stress test, pubblicati venerdì scorso, hanno dichiarato lo scampato pericolo. Quasi in contemporanea, il comitato di Basilea ha divulgato le prime indicazioni sul prossimo accordo di Basilea 3, lasciando intravedere una legislazione bancaria sui requisiti patrimoniali ben più blanda di quanto i mercati si attendessero.
Per celebrare la doppia sorpresa, gli operatori hanno aperto la settimana con un balzo in avanti sui titoli finanziari, banche in testa. Tuttavia, sulla tenuta di tanto entusiasmo è inutile farsi troppe illusioni: complice il clima vacanziero, difficilmente l’exploit di questi giorni lascerà il segno.
C’è un aspetto su cui in ogni caso vale la pena soffermarsi: per quanto effimero, questo entusiasmo sembra celare un suo rovescio tragico, una sorta di obbligo all’euforia, nonostante gli elementi forniti dallo stress test e dal comitato di Basilea non concedano troppi appigli all’ottimismo.
Sebbene il test non sia stato un insuccesso, definirlo un successo a pieno titolo sarebbe troppo generoso. Mostrandosi giudice fin troppo clemente, il Cebs – il comitato promotore del test – ha lasciato i mercati indifferenti ai risultati. E sul fronte regolamentare, neppure Basilea 3 lascia tirare un sospiro di sollievo: l’impostazione, per quanto meno rigorosa, resta inflessibile su metodi e criteri di applicazione.
Insomma si direbbe che il pericolo, più che scampato, sia solo rinviato. E per quanto i mercati cerchino di pensare ad altro, la questione fondamentale prima o poi dovrà essere affrontata: il modo di fare banca ha bisogno di un cambiamento strutturale.
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La necessità è avvertita da più parti e in Italia due scuole di pensiero sembrano avviarsi al dibattito. Da una parte, la miriade di banche locali reclama la validità del modello tradizionale, contrapponendo la tutela del risparmio a quella tecno-finanza d’importazione che altrove ha schiantato molti istituti contro un muro di debiti. Per questo nutrito gruppo, fare banca significa innanzitutto mantenere una presenza capillare sul territorio. Solo in questi termini, sempre secondo questa visione, si può raccogliere risparmio e sostenere adeguatamente il tessuto economico locale.
Va da sé che per questa schiera di banche le regole tecniche di Basilea rappresentano poco più di una zavorra. Per questi istituti, l’ambiente normativo di riferimento è ancora la legge bancaria del ‘36, quella riforma varata a tutela del risparmio quando la crisi del ‘29 era ancora vivida nella memoria del legislatore. Questa impostazione normativa è rimasta intatta fino alle prime aperture ai mercati internazionali, cominciate con la legge Amato del ‘90.
Restano comunque alcune criticità da affrontare: mantenere il risparmio in una sorta di circuito chiuso domestico a oggi si è dimostrato piuttosto costoso per i risparmiatori e non sempre all’altezza delle sfide internazionali che molte imprese si trovano ad affrontare ormai quotidianamente.
Dall’altra parte, ci sono i primi tre gruppi per capitalizzazione: Unicredit, Intesa, Mediobanca. Per questi giganti del mercato domestico l’apertura alla finanza internazionale era già scritta nel dna: la Banca Commerciale Italiana – da cui Intesa deriva – fu fondata per iniziativa di banche tedesche sulla scia della riforma Giolitti e fu gestita secondo quel modello universale a cui alcuni oggi vorrebbero ispirarsi.
Stessa vocazione internazionale hanno mantenuto fin dagli esordi sia il Credito Italiano, progenitore di Unicredit, sia Mediobanca. Per questi gruppi, efficienti e capaci di operare con eccellenti risultati su più fronti, resta la difficoltà a raggiungere il tessuto imprenditoriale italiano, un microcosmo di Pmi che appare troppo rischioso e difficilmente raggiungibile dai grandi processi di credito dei big.
È inutile speculare su quale modello finirà con imporsi o se il dibattito finirà per trovare una “terza via”, una sintesi cioè tra presenza sul territorio e finanza globale. Qualunque sarà il risultato alla fine di questa trasformazione, oggi vale la pena analizzare quei margini di manovra, stretti per la verità, su cui sarà possibile impostare il lavoro.
Il punto di partenza è la regolamentazione di Basilea: difficile immaginare un cambiamento sostanziale in tempi brevi. Per questo motivo, il bilancio degli istituti resterà una sorta di città proibita su cui solo debito sovrano e prodotti strutturati troveranno agevolmente posto.
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Su questa base, le banche avranno una prima via obbligata: attirare capitale fresco (Tier 1) attraverso un grande lavoro sui margini di intermediazione. Tenendo a mente che un eccessivo Tieri 1 è sconveniente – ritrovarsi con troppo capitale da remunerare è un rischio inutile – lavorare sui margini significa solo una cosa: alzare i tassi sugli impieghi e/o ridurre il costo di finanziamento. E qui iniziano i problemi.
Sul lato dell’approvvigionamento, le banche oggi hanno raggiunto livelli di efficienza “nipponici”. Grazie all’aiuto della Bce e allo sviluppo di strumenti obbligazionari garantiti, gli istituti di credito possono rifinanziarsi a tassi prossimi al punto percentuale. Impensabile scendere oltre senza innescare fenomeni di deflazione simili a quanto accaduto in Giappone dal 2000 in poi.
Lavorare sugli impieghi, quindi, resta l’unica possibilità. La tentazione immediata sarà aumentare indiscriminatamente i tassi di concessione: dal finanziamento industriale fino al mutuo immobiliare. Ma, data la prociclicità di Basilea, spingere imprese e persone verso maggiori probabilità di default si dimostrerà da subito controproducente.
Rimangono altre soluzioni: innanzitutto accentuare le attività “capital light”. Ovvero, quelle attività a basso assorbimento di capitale che permettono, nell’immediato, maggiore libertà di manovra (advisory, bancassicurazione, attività di gestione). Nel lungo periodo la sfida si farà più ambiziosa: il vero miglioramento sul lato degli impieghi arriverà con un grande lavoro sulla cultura del rischio.
Si tratti di risparmiatore, investitore, imprenditore o direttore finanziario di grande azienda, le banche dovranno imparare a investire di nuovo sulle persone e tenere a bilancio la qualità che sapranno individuare.