L’ennesima settimana storica di Sergio Marchionne si chiude oggi a Detroit, con il prevedibile abbraccio di Barack Obama al ceo in maglioncino blu che ha risolto un grosso problema alla Casa Bianca.
Già, un anno fa, a leggere l’esemplare ricostruzione che Paul Ingrassia, premio Pulitzer, ha dedicato al rischio di crack di Detroit, solo il Presidente e il suo consigliere Lawrence Summers erano convinti che la soluzione Fiat avrebbe portato ossigeno a Chrysler.
Ma la situazione dell’azienda era così disastrosa che, alla fine, si decise di rischiare: il default di Chrysler, infatti, avrebbe rappresentato un disastro di proporzioni epocali per le casse federali, in qualche maniera chiamate a far fronte al crack prevedibile dei fondi pensione e, di riflesso, del sindacato dell’Auto.
Oggi, dodici mesi dopo, l’Uaw, il sindacato dei metalmeccanici, già progetta di poter vendere il suo 65% in Chrysler al momento della quotazione, nel 2011 per poter riversare alcuni miliardi di dollari nei fondi. Tutto per merito di Sergio Marchionne, l’oracolo dell’auto che ha compiuto, in Europa, il miracolo di far più soldi nel 2010 vendendo meno auto.
Occorre sempre far riferimento alla realtà Usa quando si giudica il lavoro di Marchionne anche sul mercato europeo. Lui sa di dover portare risultati rapidi e convincenti negli Stati Uniti entro la metà dell’anno prossimo. A quel punto, la sua sfida, estremamente arrischiata, sarà (quasi) vinta.
Certo, nel frattempo l’Italia, anzi l’Europa, non darà grosse soddisfazioni. Un po’ perché il mercato arranca, molto perché i modelli vincenti di Fiat non arriveranno sul mercato prima del 2012. Fino ad allora,insomma, inutile farsi illusioni: per stare in piedi l’azienda che emergerà dallo spin off dovrà puntare soprattutto sull’efficienza, il taglio dei costi e la massima flessibilità per sfruttare le non frequenti impennate della domanda.
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Di qui la scelta di sistemare, una volta per tutte, la questione del confronto con la contestazione, soprattutto i micro- sabotaggi, in fabbrica. Ma anche di dettare nuove regole, più adeguate al confronto internazionale. Sia alla controparte sindacale, meno ostile di quanto non appaia a prima vista, che alle forze politiche e, perché no?, anche alla macchina della Confindustria. Con le sue burocrazie e i suoi costi esagerati, eredità di un’organizzazione del lavoro e della società a piramide, che oggi hanno poco senso.
Occorre, infine, non dimenticarsi mai l’esperienza Usa di Marchionne se si vuol capire la rabbia che emerge dietro certi atteggiamenti che appaiono esagerati o, al contrario, esagerati secondo i rituali di casa nostra. Marchionne ha l’onore di accogliere il presidente degli Stati Uniti in una fabbrica che è stata salvata con il contributo determinante dei soldi (ancora da restituire) di contribuenti Usa.
Ma lo stesso Marchionne ha dovuto affrontare la sfida di Pomigliano senza che un solo membro del governo, per non parlare del presidente del Consiglio, scendesse in campo in appoggio del gruppo torinese che pure prometteva (e promette) 20 miliardi di investimenti in Italia, Paese che attualmente attrae meno quattrini dall’estero della Turchia, terra dove la P3 evoca solo il nome di un pneumatico (quelli che la Pirelli turca sfornerà per la F1) piuttosto che l’ultima, misera pochade italiana.