A tamburo battente, con una scansione temporale ravvicinata sono arrivati i “Tremonti-bond” a disposizione delle banche italiane, l’opzione nazionalizzazione delle banche da parte della Commissione europea, l’intervento dell’amministrazione Obama al Congresso degli Stati Uniti per un eventuale salvataggio statale delle banche, a seconda di come si svilupperà nelle prossime settimane o forse nei prossimi giorni, la crisi finanziaria mondiale sui mercati.
Chi ha quasi “pianto” in questi mesi di fronte a un intervento statale sulle banche, ora dovrebbe trovarsi in brache di tela da un punto di vista teorico, anche perché non sembra che ci sia solo il nostro ministro dell’Economia a volere vedere chiaro negli asset “tossici” dei bilanci bancari, ma tutti gli Stati del mondo occidentale.
Si può solo notare, distrattamente e “en passant”, che la realtà del sistema bancario e finanziario mondiale è leggermente diversa da quella percepita al Forex di Milano, sabato scorso. Certo, siamo in Italia e la situazione è migliore. Certo, il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha insistito sulla necessità di fare chiarezza sugli asset tossici. Certo, c’è stato un richiamo forte a sostenere le imprese di fronte alle ristrettezze attuali del credito.
Un po’ meno credibile, se ci è concesso con la dovuta deferenza, il richiamo del Governatore sui rischi della disoccupazione. Non perché questi rischi non ci siano anche in Italia, me perché sono conseguenza di una crisi nata, cresciuta, maturata nelle banche e nella finanza, e poi esportata nel mondo dell’economia reale. Ora, a Milano si dice “ofelè fa il tò mestè”, che tradotto in questo caso significherebbe di lasciare al governo il compito di pensare all’andamento dell’occupazione e agli ammortizzatori sociali. Cosa che, come ha ricordato “al volo” il ministro dell’Economia, è già stato fatto nei limiti delle possibilità italiane.
Ma la stranezza di fondo (per usare un termine dell’allenatore dell’Inter, Josè Mourinho) è che si ricordi da parte dei banchieri il rischio di un deterioramento dell’economia reale. Sarebbe come scambiare le cause con gli effetti. Per dirla all’americana, la Main Street subisce i disastri di Wall Street.
Al proposito, è interessante leggere l’ultimo libro sbarcato in Italia di Paul Krugman “Il ritorno dell’economia della depressione e la crisi del 2008”, dove si dice: «Oggi come ieri la crisi ha cominciato a dare i primi segnali in un cielo azzurro e sereno, quando la maggior parte degli esperti prevedeva che il boom sarebbe comunque continuato, anche se la recessione si stava avvicinando; oggi come ieri i tradizionali interventi macroeconomici si sono rivelati inefficaci, forse anche controproducenti. Il fatto che qualcosa di simile possa accadere nel mondo moderno dovrebbe far venire i brividi a chiunque abbia un minimo di senso della storia».
Krugman è quasi impietoso di fronte ai vecchi e intemerati ottimisti dell’inizio del terzo millennio. John Lucas, nel 2003, diceva: «Il problema principale di prevenire la depressione è stato risolto, in tutte le sue implicazioni pratiche». Lucas è un premio Nobel per l’economia. Ben Bernanke, attuale presidente della Fed americana ed ex professore di Princeton, ripeteva nel 2004: «La moderna politica macroeconomica ha risolto il problema del ciclo economico o lo ha ridotto a un banale fastidio». Insomma, grande preveggenza all’incontrario.
Il che ci riporta allo stato attuale dei grandi discorsi sul sistema bancario che ha depresso l’economia del mondo e che si arrabatta intorno all’ammontare dei titoli “tossici”. Strano che in pochi facciano cenno al documento sull’opzione della nazionalizzazione delle banche da parte della Commissione europea nella sua interezza. Non se ne è paralato neppure al Forex di Milano. Eppure il documento sembra datato 18 febbraio e fa una stima dei titoli “tossici” del sistema bancario europeo che ha “scosso” perfino l’ineffabile presidente della Bce, Jean Claude Trichet.
Questa stima è rappresentata da ben 18mila miliardi di euro. L’ammontare non significa perdita. Magari questi titoli sono o saranno, in parte, ancora buoni. Ma la necessità di ripulire al momento i bilanci delle banche da questa “carta per discarica”, così alcuni chiamano la bad bank, non è secondario per ricreare fiducia sul mercato e non invece una fuga quasi sconsiderata verso l’acquisto di oro, arrivato da giorni ai suoi massimi livelli.
Mettiamo queste considerazioni all’interno del Belpaese che, alla fine, finora è ancora fortunato. Le polemiche anti-Tremonti sull’invadenza dello Stato nelle banche sembrano ormai una visione da “periodo giurassico” rispetto alla realtà che viviamo. Nessuno può realisticamente compiacersi di fronte al “ritorno dello Stato”, ma bisogna pure calcolare i valori che ogni giorno escono da Piazza Affari.
E bisogna pure tenere conto di quello che sta avvenendo in America e in Europa. Obama non si è trasformato in un banchiere, ma “ogni giorno porta la sua pena” per il neopresidente americano, con il colosso delle assicurazioni Aig che chiuderà con un bilancio negativo di 60 miliardi di dollari e con due grandi banche come Citigroup e Bank of America che hanno un “Tier 1” che mette i brividi alla schiena.
Gordon Brown in Gran Bretagna non si è messo a rileggere i libri di Clement Attlee o di Ernest Bevin, grandi leader storici del Labour, ma si è trovato a sborsare nuovi soldi per la Northern Rock. E cosi il cancelliere Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy vanno a dormire con la “preoccupazione bancaria” al posto del pigiama. Per non parlare dell’innovativo Zapatero, che si era appena “ubriacato”, qualche mese fa, di fronte ai dati della crescita spagnola.
La sensazione è che, passata una decina di giorni e visto l’andamento dei mercati, verranno prese decisioni politiche, dopo anni di anti-politica sbandierata come vessillo di modernità e di innovazione. Se il mercato non si riprende, il sistema bancario dovrà voltare pagina. Tutto sommato, in Italia meno che altrove, rispetto al presunto “nuovismo” degli anni Novanta.