Che il potere lo abbia chi sia al governo è una verità lapalissiana. Tuttavia, vale la pena distinguere il potere dall’autorità. Il primo si riferisce all’abilità nel raggiungere determinati scopi anche attraverso la coercizione, mentre il concetto di autorità – che nel senso etimologico significa accrescimento – comprende la legittimazione, la giustificazione e il diritto di esercitare quel potere. Non è un caso che gli antichi romani distinsero tra auctoritas, potestas e imperium, relegando a quest’ultimo i gradi littori dell’esercizio del potere, fino alla dittatura benché elettiva. Nel convulso periodo tra il secolo XIX e XX si affermò l’esigenza dell’autorità che il filosofo tedesco Max Weber distinse in tre forme: quella legale, ovvero quella regolata da un sistema ufficiale di leggi; quella tradizionale, ossia legittimata dalla tradizione; quella carismatica, legittimata dalle capacità personali (il carisma appunto) del capo. Nella prima metà del XX secolo seguirono le sagaci analisi di Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Erich Fromm e Theodor Adorno che analizzarono il pericolo insito nell’esercizio dell’autorità, l’autoritarismo. Ci rendiamo conto che per i simpaticoni cettolaqualunque di governo si tratta di disquisizioni da parrucconi e professoroni che vogliono bloccare il “cambiamento”. Ce ne dispiace, ma se ne faranno una ragione.
Abbiamo assistito alla conferenza stampa del presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi, che illustrava i provvedimenti del decreto economia e finanza (Def), mentre il presidente della Repubblica nel tardo pomeriggio si affrettava a diramare un comunicato che smentiva le voci di “necessaria riscrittura” del decreto legislativo di riforma costituzionale e mentre in parlamento si è aperta una breccia tra la minoranza del Pd e il Movimento 5 Stelle su un testo di riforma del Senato diverso da quello del governo. Momenti convulsi, nei quali si mescolavano, confrontandosi, auctoritas, potestas e imperium. Sempre nello stesso giorno, un articoletto de Il Corriere della Sera dava conto di un saggio del fiorentino in cerca di collocazione, Lorenzo Bini Smaghi, che avrebbe smascherato “la verità sul Fiscal compact”. A suo dire, la verità è che si tratta solo di 30-40 miliardi all’anno, e non come “falsamente” si è scritto di circa 50 miliardi.
Una cosa è certa, il dux Renzi ha detto che dava 80 euro in più in busta paga a 10 milioni di italiani e così sarà, nonostante la conseguenza di far slittare di un anno le ipotesi di debole crescita (0,3%). Chissà poi perché questi giovani governanti abbiano privilegiato i lavoratori e non i pensionati nelle stesse condizioni economiche. Sempre il nostro di Rignano sull’Arno ha detto che si chiude il Senato, ma qualche “professorone parruccone” e alcuni deputati eletti (lui non lo è) obiettano che nelle modalità proposte si stravolge l’ordine costituzionale della Repubblica. Nessun dialogo sulle proposte alternative a quella presentata dal governo. Questa è la vera democrazia, decidere di cambiare! Cambiare è il nuovo mantra! Chi si oppone è “parruccone professorone”, è contro la modernità! Già la modernità, ma siamo proprio sicuri che questi giovani governanti capiscano cos’è la modernità? E poi, qual è il progetto complessivo? Questa è l’Italia del nuovo, del giovane, dell’entusiastico cambiare per essere.
Intanto, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha avvertito che “l’area euro è emersa dalla recessione”, ma la ripresa economica resta ancora fragile e la situazione non sembra essere prossima a un significativo miglioramento. Osservato speciale è soprattutto l’Italia, che sta facendo più fatica degli altri a ripartire.
Le cause, almeno per gli analisti del Fmi, sono rintracciabili negli alti livelli di debito e disoccupazione, nella stretta sul credito e nella frammentazione finanziaria che pesa sulla crescita. Ma allora, gli 80 euro di Renzi che non rilanciano significativamente la domanda ma ritardano la debole ripresa economica sono inutili se non dannosi? Parrebbe proprio di si. Qualcuno avanza l’ipotesi che si tratti di un disperato quanto velleitario tentativo di avere un voto di scambio proprio a poche settimane dalle elezioni europee nelle quali vincerà la bocciatura dell’astensionismo mentre il Pd e il M5S si contenderanno le spoglie di Forza Italia. E c’è ancora qualcuno che ha voglia di apostrofare gli altri di “populismo”?
Sul fronte europeo, il nuovo bazooka annunciato con enfasi da Mario Draghi, cioè l’intervento di acquisto di titoli di debito pubblico per il valore di 1000 miliardi, resta un’ipotesi “non immediata”, “un concetto teorico” come lo hanno definito alcuni esponenti della Bce, tra cui Mersch che ritiene “ancora lunga la strada”. Sembra proprio che all’interno dell’Eurotower non ci sia ancora identità di vedute, ma il Fondo monetario è più ottimista e sollecita le banche centrali al taglio dei tassi in caso di deflazione. Le diverse ricette allo studio hanno fatto comprendere agli investitori che siamo ancora lontani da una decisione sul piano Bce. In Borsa si è così smorzato l’entusiasmo. Insomma il Fondo monetario dice “attenti alla deflazione, evitatela” e Draghi risponde che “la recessione è finita, ma l’elevata disoccupazione blocca la ripresa: i governi devono andare avanti con le riforme del mercato del lavoro e il risanamento dei conti pubblici”. Due ricette, due visioni diverse che lasciano attoniti gli investitori internazionali.
Non è un caso che anche un europeista convinto come è Romano Prodi, già presidente del Consiglio italiano e presidente della Commissione europea, in una sua intervista a Il Messaggerodel 3 aprile dichiari che “con la crisi finanziaria, e soprattutto in conseguenza delle divisioni della politica europea, la magica forza attrattiva dell’Euro si è attenuata fino a scomparire. La Cina ha di conseguenza accelerato l’inizio della lunga marcia per fare dello yuan la valuta internazionale da affiancare al dollaro”. Mentre l’Unione europea resta prigioniera della sua cattiva gestione monetaria e dell’assenza di una politica economica comune, “il ministro delle finanze britannico ha spiegato che la strategia del Regno Unito (che non condivide l’Euro, ndr) è semplicemente quella di fare di Londra il centro per trattare lo yuan di fuori della Cina, prima che questo progetto venga messo in atto da altri paesi. A sua volta il governo cinese ha dato subito inizio al lungo cammino della convertibilità della propria moneta, allargando la banda di oscillazione del cambio nei confronti del dollaro e procedendo a una controllata svalutazione dello yuan dopo tanti anni in cui tale moneta aveva in modo costante aumentato il proprio valore nei confronti della valuta americana. La lunga marcia dello yuan per avere un ruolo crescente nel sistema monetario internazionale fino a sostituirsi all’Euro, è quindi cominciata”.
Con questa Europa divisa e litigiosa, incapace di esprimere una politica estera indipendente dagli Usa e dalla Russia, come ha dimostrato il tragico errore sull’Ucraina, ma anche quelli nelle “primavere arabe”, “non è quindi difficile prevedere un ulteriore indebolimento della nostra posizione nel mondo, fino ad arrivare all’irrilevanza”. Prodi conclude che “se vogliamo garantirci un futuro abbiamo quindi bisogno di un’Europa più forte e più unita”.
È certamente vero, ma non basta. Ci vuole un nuovo progetto politico, sociale ed economico europeo che tenga conto del mutato contesto mondiale e delle condizioni interne, demografiche e sociali dell’Europa stessa. A questo proposito qualche pista di riflessione potrebbe rilanciare nei giovani, anche quelli al governo, la voglia di impegnarsi alla (ri)costruzione della nostra Europa, sia a livello dell’Unione europea sia a quello degli stati nazionali:
A) Abbandonare ogni idea geocentrica (dal Made-in alla moneta) e ripensare il modello economico nel quadro dell’irreversibile catena lunga della mondializzazione che per gli europei si traduce in tre imperativi di competitività: più conoscenza; più innovazione; più creatività;
B) Abbandonare ogni idea proto- e post-nazionale (dagli stati-nazione al super-stato europeo) e concentrare tutti gli sforzi sulla costruzione di un nuovo modello di potenza del XXI secolo che ha tre caratteristiche primarie: equità sociale; sostenibilità ambientale; valorizzazione qualitativa;
C) Abbandonare ogni idea militare (dagli eserciti nazionali alle alleanze stile Nato) e concentrare tutti gli sforzi sulla costruzione di capacità strategiche del XXI secolo che per gli europei si traduce in tre obiettivi primari: intelligence costruita attorno ai concetti reticolari, dei flussi e della dimensione cyber; un ampio contingente di forze civili per la prevenzione e la cooperazione; un vasto programma di educazione e di scambio educativo interno ed esterno all’Europa.