Matteo Renzi ha ottenuto quel che voleva: guadagnare tempo. Quanto tempo? Almeno fino a primavera. I conti pubblici dell’Italia non sono stati bocciati dall’Unione europea, anche se tutti si rendono conto che non tengono. Le cose vanno male anche per la Francia, il Belgio, la Spagna, il Portogallo, l’Austria e Malta, volendo isolare il caso speciale della Grecia. E Bruxelles non può punire mezzo continente. Jean-Claude Juncker ha altro cui pensare (i Luxleaks ci hanno fatto un favore, lo si è visto anche nell’intervista rilasciata al Financial Times) e soprattutto l’intera Commissione si presenta debole e divisa. Anche perché l’azionista di maggioranza, cioè la Germania, oggi ha le proprie rogne da grattare.
L’intera Eurolandia langue e gli ultimi dati dimostrano che la deflazione è ormai una realtà non più solo un rischio. Mario Draghi sta cercando di usare il bazooka, ma ancora non sa se potrà farlo davvero, vincendo la strenua resistenza della Bundesbank.
Alla luce di tutte queste variabili, prendere tempo non è una tattica sbagliata. In fondo è quella che hanno seguito anche gli altri paesi in difficoltà. Con una carta in più per l’Italia: una riforma del mercato del lavoro che la Francia non si sogna di mettere in agenda (il totem qui è l’articolo 18, a Parigi si chiama 35 ore). Lo “scalpo”, come dice la Camusso, non è ancora alla cintola di Renzi, però non è più sulla testa dello Statuto dei lavoratori.
Ma quanto tempo è riuscito a guadagnare il Governo italiano? Non molto per la verità, un centinaio di giorni o poco più, perché già a marzo, quando si tratterà di scrivere il prossimo Documento di economia e finanza, bisognerà mettere in cantiere misure più consistenti.
In primo luogo, dal lato dei tagli alla spesa pubblica (le coperture dei provvedimenti fiscali sono a dir poco aleatorie, basate su impegni e promesse, non su sforbiciate vere) e, in secondo luogo, sul versante degli stimoli alla crescita. Quel che conta per finanziare il debito è il tasso di sviluppo, è questo il dato che interessa ai mercati finanziari, non tanto lo stock assoluto del debito pubblico o il rapporto con il prodotto lordo. Decisiva è la capacità di pagare gli interessi e ciò dipende dal sovrappiù di prodotto annuo che allo stato attuale è attorno allo zero. Dunque, è evidente che i falchi europei sputeranno in primavera il rospo che hanno ingoiato in inverno.
Di qui a marzo che cosa potrà cambiare? In politica molto. Intanto perché ci sarà, come sembra probabile, un nuovo presidente della Repubblica, il quale potrà a quel punto anche sciogliere le Camere. Può darsi che ci si arrivi con una nuova legge elettorale e la riforma del Senato, può darsi di no. In ogni caso la gabbia chiusa a doppia mandata da Giorgio Napolitano non funzionerà più. Ciò può andare a favore di Renzi, soprattutto se non avrà alternative a destra, oppure può creare una nuova ondata di incertezza e instabilità, con il rischio che i mercati finanziari tornino ad attaccare il debito italiano.
A quel punto, come starà la congiuntura economica? Tutte le previsioni fatte finora sono state smentite, quindi è azzardato lanciarsi oggi in proiezioni improbabili. Tuttavia si può ragionare su alcune tendenze che appaiono probabili. La prima è la svalutazione ulteriore dell’euro, soprattutto se la Bce prosegue (come si è impegnata a fare) nella sua politica monetaria espansiva, e se il dollaro continua a rafforzarsi perché la Federal Reserve comincerà a stringere un po’ la vite, vista la crescita americana. Anche il boom petrolifero Usa, del resto, contribuisce all’apprezzamento del biglietto verde. Ciò significa che le esportazioni avranno una ulteriore spinta. Non bastano, naturalmente, perché rappresentano poco più di un quinto del Pil italiano, ma sono un buon traino.
La domanda interna dovrebbe ricevere un sostegno dalla conferma degli 80 euro e dagli altri benefici contenuti nella legge di bilancio. Secondo le stime ufficiali, aggiunge due decimali alla crescita del prodotto lordo, non molto, ma comunque il doppio della media nell’Eurolandia. Le riforme avranno un impatto molto piccolo (forse non più di un decimale l’anno prossimo), però hanno un effetto cumulativo che dovrebbe dare frutti più ricchi nel 2016.
C’è poi l’incognita bancaria. La stretta continua, ma più per colpa di una domanda fiacca. È vero, la necessità di aumentare il capitale spiazza il credito, tuttavia la Bce fornisce ancora liquidità, e le banche non dovrebbero avere nessuna paura di restare a secco. Sono tutte circostanze messe in luce da uno studio sull’Italia dell’Ubs che non s’allinea al pessimismo di maniera.
Dunque, ci sono alcune carte da giocare nella partita di primavera. Carte buone se il governo si sarà dato una strategia di più lungo respiro, cioè quella che è mancata dalle elezioni europee a oggi. L’idea di dare priorità alle riforme istituzionali si è rivelata mal posta anche perché la guerra lampo concepita da Renzi si è trasformata in una logorante guerra di trincea. Quando la crisi economica si è imposta, il capo del governo ha seguito una linea a zig zag, un passo avanti e due indietro, con una verve polemica ad ampio raggio che ha generato ansia non sicurezza.
Giusto andare fino in fondo sul mercato del lavoro, anche perché non ci sono alternative, una riforma per aumentare la flessibilità “in entrata e in uscita” è quel che chiedeva la Bce fin dalla famigerata lettera dell’agosto 2011 ed è il prerequisito del quale ha bisogno oggi Draghi per ammorbidire l’irsuto pelo dell’orso berlinese. Non possiamo dimenticarlo e prendere in giro gli italiani. Detto questo, Renzi è apparso troppo un capitan Fracassa, a cominciare dal rapporto con i sindacati.
Intendiamoci, la forma non basta quando a dividere è la sostanza. In Germania, le riforme che oggi tutti lodano costarono la Cancelleria a Gerhard Schröder. Però, viste le complesse partite in corso, dal Quirinale a Bruxelles, Renzi dovrà mettere in campo qualità diverse da quelle mostrate finora: tenuta, ritmo costante, mediazione. Lui, invece, si trova bene nella corta distanza. A questo punto, avrà bisogno di un passista che gli faccia da sostegno.