È come se su Telecom Italia le istituzioni nazionali non riuscissero a uscire da uno stato perenne di fibrillazione impotente, smentendosi e contraddicendosi ogni due passi. Quel che sta accadendo in questi giorni sulla questione della rete fissa di Telecom ne è l’ennesima riprova.
1) È grottesco che, per applicare un regolamento scritto da ubriachi, si minacci Vivendi, o meglio Telecom Italia, di una multa da quasi 300 milioni di euro aggrappandosi al cavillo della tardiva comunicazione circa il conseguito controllo. Sono pantomime da legulei. Bolloré comanda su Telecom da due anni. È chiaro come il sole, anche agli occhi degli ubriachi. Probabilmente risalendo in giudizio fino alla Corte di giustizia europea il bretone la farebbe franca, ma comunque non è degno di uno Stato dotato di visione e strategie ridursi a simili mezzucci per ottenere ciò che gli spetta, cioè il controllo di un asset strategico per il Paese come la rete delle telecomunicazioni. Ci vorrebbe un atto d’imperio, una legge, qualcosa – per capirci – di simile a quel che ha fatto, sbagliando ma mettendoci la faccia, il governo francese contro Fincantieri. Invece macché: mezzucci.
2) Nella primavera del 2013 il governo Letta si vide proporre da Li-Ka Shing, il magnate cinese all’epoca proprietario unico di H3G e quindi di 3 Italia, che H3G acquisisse Telecom Italia per la parte dei servizi e della rete mobile lasciando tutta la telefonia fissa, rete compresa, a terzi da trovare, nel quadro di un’Opa che mirava ad acquisire il 29,9% di Telecom. E per quanto la Cassa depositi e prestiti, all’epoca presieduta da Franco Bassanini e guidata da Alberto Gorno Tempini, fosse favorevole a comprare la società della telefonia e della rete fissa – il che avrebbe risolto allora la questione – il governo Letta glissò, con il beneplacito del suo “azionista” Renzi, mentre Mediobanca e Telefonica, che guidavano l’inconsistente azionariato Telecom, definirono ostile l’operazione e tutto sfumò.
3) Nel 2007 il governo Prodi, con il famigerato piano Rovati, progettò appunto l’esproprio della rete fissa dalla Telecom allora controllata da Tronchetti; e il patron della Pirelli, per essersi opposto, fu ritorsivamente attaccato in ogni modo – giudiziario, politico e mediatico – finché finì con l’uscirsene a favore di una compagine di soci, la famosa “Telco”, di cui il più competente, Telefonica, era lì solo per carpare le ali alla controllata che vedeva come una concorrente da reprimere, e la più autorevole, Mediobanca, non sapeva cosa farsene di quella partecipazione.
4) Oggi si ipotizza – anche se per ora ufficiosamente – una scissione di Telecom in due società, delle quali all’inizio sarebbero soci simmetrici tutti gli attuali soci della Telecom unica che c’è oggi. Da una parte la rete fissa di accesso nazionale e la rete Sparkle che collega l’Italia al mondo per il traffico Internet; e dall’altra la società che gestisce la telefonia mobile e i servizi di telefonia fissa, che insomma usa quella rete essendone proprietaria, ma domani potrebbe usarla affittandola. La società della rete, una volta autonomamente quotata in Borsa, finirebbe in qualche modo con il confluire con Oper Fiber, il grande e nuovo soggetto industriale creato dall’Enel e dalla Cassa depositi e prestiti per creare una rete in fibra ottica a banca ultralarga autonoma e alternativa a quella di Telecom, che non ha voluto far confluire la propria in un unico progetto nazionale che le avrebbe fatto perdere il controllo esclusivo della sua rete. Ma il disegno è oscuro e pieno di insidie, per quanto sia Padoan che Renzi si siano espressi a favore.
5) Innanzitutto occorrerebbe trovare la forza politica – e in queste condizioni il governo sembrerebbe proprio non averla – per imporre a Telecom di scorporare la rete: una legge, una direttiva. E con quali strumenti, quali iter, quali chance di successo? Inoltre: a quali valori Telecom dovrebbe conferire la rete nella società scissa? Cioè: con la rete, quanti debiti e quanto personale andrebbero conferiti? Domanda cruciale per la vita successiva di entrambi i tronconi. Domanda sulla quale potrebbero discutere mille anni diecimila analisti senza trovare accordo. Ma attenzione: se è fondata – come lo è – la tesi che sottende al lavoro di Open Fiber, cioè che la banda ultralarga si installa davvero soltanto con il metodo della fibra ottica che arriva fisicamente dentro case e uffici (Ftth: fiber to the home) e non con quella che si ferma negli armadietti di quartiere per poi essere connessa ai fili di rame e affidare a essi l’ultimo tratto dei collegamenti (Fttc: fiber to the cabinet), è chiaro che il valore della rete Telecom, appunto mista di fibra e rame, è destinato a scendere nei prossimi anni. Certo, quotando in Borsa una società scissa si affiderebbe al mercato la determinazione del prezzo giusto: ma queste sono chiacchiere, in realtà ci si scannerebbe sul valori di conferimento.
6) E chi comanderebbe sul nuovo maxi-gruppo rappresentato dalla confluenza tra Open Fiber e Telecom-Rete? Non c’è ancora alcuna concreta possibilità di varare l’operazione e già si dilaniano sul futuro potere tra Bassanini, oggi a capo di Open Fiber, iperattivo a dispetto dei suoi 77 anni e della corresponsabilità diretta avuta sia nell’Opa del ‘99 su Telecom che impiombò l’azienda sia nell’inazione degli ultimi anni, e la Cassa, dove impera un ex Goldman Sachs come Claudio Costamagna, non precisamente un chierichetto del potere finanziario, e anche l’Enel. Insomma, il solito canaio su un osso che non c’è ancora.
7) Comunque vada, sarà solo un’altra estate inutilmente calda per Telecom. Bolloré avrà buon gioco a resistere: oltretutto lui, alle spalle, ha uno Stato, non una compagnia da operetta. Il dentifricio delle telecomunicazioni italiane è uscito dal tubetto, non sarà il governo Gentiloni a riuscire a rimettercelo.