Con la consueta ipocrisia secolare e con l’irresponsabilità acquisita in questi ultimi venticinque anni, tutti i protagonisti, non solo i cosiddetti politici italiani, della situazione del Paese si avviano verso elezioni che non avranno sostanzialmente alcuna utilità, se non quella di attestare su carta da bollo il fatto che in Italia non esiste una maggioranza in grado di governare e quindi di risolvere i gravi problemi economici e sociali che esistono ancora, nonostante alcune assicurazioni di maniera.
Occorrerà che qualcuno, da non si sa bene quale parte del mondo o dall’Europa probabilmente, si occupi dell’Italia e del suoi gravi problemi.
Insomma le elezioni del prossimo marzo 2018 — dopo anni di “tangentopolismo” tanto purificante che ha reso tutti più “puliti”, di questioni morali del menga, di lotta alla corruzione, all’evasione, all’elusione e di altre realtà fatte diventare, con una fastidiosa insistenza propagandista, stravaganze antipolitiche —, consacreranno probabilmente un fatto che è in discussione da anni: l’Italia deve essere un Paese eterodiretto, dopo la grande svendita cominciata nel 1993, che (attenzione!) doveva riparare al disastro del debito pubblico.
Oggi si sa che il debito, dal 1993, è triplicato, dati alla mano, anche se sono dati che ovviamente gli esperti neoliberisti bocconiani sanno interpretare con grande incapacità, quasi come gli alchimisti rispetto alle ricerche sulla biochimica. Che dire? Pazienza, se non sono stati in grado di risolvere una crisi in dieci anni. Dovrebbero forse andare a lezione da Paul Krugman, fare stage keynesiani, ma loro si sentono superiori ai premi Nobel e soprattutto difendono la realtà del mercato, che si aggiusta sempre e comunque, alla lunga, quando tutti siamo morti.
Considerate per un momento questa cornice e guardate i pupi che si muovono sulla scena politica italiana. Litigano a destra, Salvini, Berlusconi e la Meloni per la gioia di media cartacei che ormai vengono letti dai parenti dei giornalisti. Litigano a sinistra, da Renzi a D’Alema, passando per i Bersani, i Grasso, le Boldrini, gli Speranza e gli Orfini. E’ un festival del litigio, che ricorda le sceneggiate napoletane (che però hanno avuto una grande dignità storica) e “Le baruffe chiozzotte” di Carlo Goldoni, la più grande metafora teatrale e letteraria dell’Italia come comunità.
Litigano anche quelli che dovrebbero rappresentare l'”hombre vertical”, i penstellati puri e duri, tutti di un pezzo come i loro guru Casaleggio e Grillo. Qualcuno scantona, qualcuno trascura Di Maio “il reincarnato”, qualcuno si tira indietro da queste elezioni che non servono a nulla. In più i pentastellati hanno un pregio che piace tanto a questa Italia travolta dalla confusione rancorosa: ce ne sono di destra, di sinistra, di centro. Tutti insieme appassionatamente per non far capire niente.
Insomma il “festival del litigio” anticiperà e seguirà la menata di torrone annuale: il Festival di Sanremo, quello che, secondo il compianto Gianni Boncompagni, doveva vedere la mobilitazione dell’esercito per un arresto generale (spettatori compresi) con l’imputazione del 41bis.
Scherzi a parte, non si capisce bene se le comparse politiche di queste epoca italiana infausta non capiscano o facciano solamente finta di non capire. A Berlusconi va bene sostanzialmente tutto: la maggioranza relativa, il proseguimento del governo di Gentiloni, l’accordo con il Pd o con il centrodestra, oltre che con gli animalisti. Dipende dalla giornata. Renzi fa costantemente il “ganassa”, ma pare francamente un suicida, politicamente parlando, e sembra preparare già la condanna da consegnare alla storia per il dopo-elezioni: volevano solo la mia testa. Vero, ma del tutto inutile come concetto politico. Grasso si è calato nella parte di “salvatore della Repubblica” e raccoglie consensi nella sua famiglia. Di Maio ha scritto a tutti, dopo a Macron e ad altri esponenti internazionali, probabilmente anche agli zii.
A naso, sembra che quasi tutti capiscano a sappiano quanto sta accadendo. Sembrano i fantasmi imbacuccati di una tempesta in arrivo: il commissariamento italiano che sta proprio dietro l’angolo e può essere mascherato in diversi modi, non solo dalla dura presenza della troika. In diversi ambienti finanziari si dice ormai apertamente, pur con tutte le rassicurazioni di Mario Draghi, che il debito italiano è arrivato a un punto tale che deve essere “congelato” e quindi ridotto, contenuto magari con lo scherzetto di una …patrimoniale. Roba che la ditta del disastro “Monti&Fornero” diventerebbe improvvisamente simpatica.
Intanto le baruffe e le sceneggiate di seconda mano continuano. In questi giorni il centro dell’avanspettacolo politico italiano è questa Commissione banche messa in piedi giusto per gettare fumo negli occhi a un Paese che si è impoverito e, nel caso delle banche, ha traumatizzato migliaia di risparmiatori.
Chi ha pensato a questa commissione come a una sorta di chiarificazione e di “purificazione” delle sconcezze italiane di questi ultimi anni finanziari, deve essere ricoverato in qualche nosocomio psichiatrico. Da un punto di vista politico è di una banalità grandiosa e, di fatto, la migliore metafora di questa Commissione banche è quella del famoso ventilatore del grande Rino Formica. Quel ventilatore che spargeva “materiale organico” (che noi chiameremo volgarmente fango) in tutte le direzioni.
L’attivismo del presidente Pier Ferdinando Casini è quasi inquietante rispetto alle dichiarazioni che aveva fatto sulla validità di questa commissione. E come presidente non ricorda certo il suo maestro, un gran signore di altri tempi. La parola d’ordine è ormai “fate presto”, come un vecchio titolo del Sole 24 Ore. In commissione accade di tutto, comprese domande senza senso, ma soprattutto risse tra esponenti delle istituzioni, con vari scazzi tra “nobili rappresentanti” di Bankitalia e “nobili rappresentanti” della Consob, i cosiddetti “vigilantes”.
Certo, noi nelle commissioni parlamentari non riusciamo a raggiungere l’ironia e la durezza mascherata di falsa educazione di un Lord Palmerston o di un Sir Disraeli. Siamo più infiammabili per carattere di quegli anglosassoni legati a un’antica democrazia forse superata, chissà! Ma certo che da quel piano snobistico fino a una sgangherata rissa da bar ce ne corre. In fondo, se ancora adesso si va a vedere l’audizione di Romano Prodi fatta da Leonardo Sciascia in commissione Moro (basta cercarla su internet), si comprende perché Prodi non è diventato presidente della Repubblica. C’era durezza, ma anche un garbo dignitoso.
In Commissione banche invece Bankitalia e Consob sembrano cani e gatti, milanisti e interisti, non c’è nemmeno la scusa del “destra o sinistra”. Arriva anche il celebre esperto in vini Gianni Zonin, che poi era presidente della Popolare di Vicenza. Zonin deve aver ecceduto con il prosecco perché dice “non so, non ricordo”. Arriva Giuseppe Vegas, ormai ex presidente Consob, dal piglio decisionista. Dice di aver incontrato Maria Elena Boschi e di aver parlato con lei di Banca Etruria, la banca dove il padre Pier Luigi faceva il vicepresidente.
Maria Elena raccontava di essere preoccupata per la possibilità di una fusione tra Etruria e Vicenza. Ma Vegas, dopo aver parlato dell’incontro, specifica che Maria Elena non fece alcuna pressione. Vale a dire che l’ex ministro e oggi sottosegretario Boschi non ha favorito in alcun modo il padre. Bene. Ma per quale ragione dilungarsi in quella sede, dove si poteva anche accennare al fatto, e non parlare invece, facendo sapere al pubblico, almeno ai risparmiatori derubati, il gioco spregiudicato del sistema bancario italiano in questi anni?
Un dibattito reale, onesto, sincero sul ruolo svolto dalle banche, al di là della ricerca di responsabili singoli, non viene mai fatto. Possibile che si siano dimenticate le critiche al ruolo della banca universale o generalista? Possibile che la questione stock option, i famosi rating e i metodi McKinsey, tanto di moda qualche anno fa proprio fino alla crisi, siano stati dimenticati?
In attesa che Casini (ahimè! i latini sostenevano che “nomina sunt consequentia rerum”) faccia chiarezza, l’avanspettacolo politico e mediatico continua fuori dalla Commissione banche. In una popolare trasmissione de La7, oltre due milioni di spettatori assistono allo show tra il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e Maria Elena Boschi. Altro festival inutile della noia, tra termini come “bugiardo”, i sottintesi di disonestà, poco informato, dimissioni, conflitti di interesse e, a casaccio, i luoghi comuni che hanno ridotto a categorie “giustizialista” e “garantista”. Qualcuno un tempo immaginava anche in Italia metodi giornalistici alla Walter Lippmann oppure anche alla Walter Duranty (spia russa, ma almeno intelligente). La delusione è arrivata da molto tempo. Si deve ripiegare sui ricordi cinematografici dell’adolescenza, con “Una giorno in pretura”, oppure, guardando i contendenti e l’arbitro, ritornare a una sceneggiata come Totò, Peppino e la… malafemmina. Peccato che non si riesca a ridere.