«Se alcune banche hanno deciso di non utilizzare le obbligazioni governative è una loro libera scelta ma non fanno bene il loro mestiere. Il mestiere delle banche è fare soldi con la finanza o fare la banca e dare i soldi alle imprese? È sicuramente un mestiere difficile soprattutto in una fase di crisi più che nella normalità. Ma se continuano a far soldi con la finanza, stanno solo preparando la prossima crisi». Parole e musica di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, all’indomani della decisione di Unicredit e Intesa-San Paolo di non avvalersi dei Tremonti-bond.
Il nodo della crisi e della fase recessiva che essa ci ha regalato e che ora stiamo vivendo, cari lettori, è tutta qui. Il problema, infatti, è posto male fin dal principio: non bisogna impegnarsi nel rendere la vita impossibile agli hedge funds, ma fare in modo che le banche non agiscano come loro, ovvero come fondi speculativi invece che come erogatrici di credito e gestrici del risparmio. Anche perché ciò che attende le banche dietro l’angolo dell’autunno è tutt’altro che chiaro.
Ieri, infatti, il Fondo monetario internazionale ha abbassato le proprie stime rispetto le svalutazioni globali degli istituti di credito, scendendo da 4 a 3,4 trilioni di dollari, ma questo non significa che stia arrivando il sereno: primo, perché all’orizzonte è ora ufficialmente confermato che siano in avvicinamento altri 1,3 trilioni di svalutazioni e secondo perché la crisi reale sarà, con l’aumento della disoccupazione a livello globale, basata sui mutui e i prestiti.
«La situazione sta migliorando ma i rischi di un altro cambio repentino della situazione sono alti», rendeva noto l’Fmi. Inoltre, se le riserve paiono generalmente in grado di garantire la sopravvivenza delle banche anche in caso di forte picco di crisi, i mancati introiti o comunque la capacità limitata di creare profitto a fronte delle svalutazioni certe peserà ancora per un anno e mezzo, scrive sempre l’Fmi. A questo, poi, va unito il dato che vede quasi tutti gli analisti Usa ed europei concordi nel prevedere una contrazione del 17% nel mercato borsistico a ottobre: non certo uno shock ma questo rally “liquidity driven” è durato un po’ troppo e ha quasi certamente creato una bolla che lascerà molti con il cerino in mano.
Per quanto infatti i soldi pompati da governi e organismi internazionali abbiano creato entusiasmo negli investitori, c’è il forte rischio che molti soggetti si siano esposti eccessivamente e rotto le cautele dell’hedging a fronte di una leva di leverage spropositata posta in essere di nuovo per fare profitti in fretta e sfruttare il momento. Guarda caso, i soggetti maggiormente indiziati di aver dato vita a questa seconda fase di costruzione della crisi, come accennava giustamente il ministro Tremonti, sono proprio le banche: qui come altrove.
Che dire delle sdegnose scelte di Barclays di accettare il sistema di protezione o quelle di Lloyds di volerne uscire? E questo vale anche per Commerzbank, seduta su 101 miliardi di euro di titoli tossici eppure pronta a ridare parte dei fondi ottenuti dal governo tedesco. Strana velocità di ripresa in periodo di crisi dell’economia reale, davvero strana.
Siamo alla “bolla di crisi”, ovvero un eccesso di denaro statale che ha fatto la gioia di banche e fondi speculativi, gettatisi a capofitto sui mercati – nonostante gli scarsi volumi e i book non liquidissimi – per sfruttare a più non posso il rally e con questa scelta, perpetuata anche grazie alle decisioni assistenzialiste di molti governi e alle scelte della Fed, lo hanno prolungato artificialmente.
Attenzione, la correzione dei corsi potrebbe fare vittime, anche eccellenti, non solo feriti. Non è un caso che Goldman Sachs parli di questo periodo come di un nuovo ottobre 1999, ovvero un periodo in cui lanciarsi nell’investimento sfrenato di titoli sottostimati grazie proprio all’eccesso di liquidità che sta spingendo il sistema.
E infatti, stando a una tabella contenuta nell’ultimo report di Goldman Sachs, vediamo che dal 9 marzo di quest’anno – inizio del mercato del toro – a guadagnare maggiormente sulle piazze europee sono stati i titoli di settore a fortissimo rischio, ovvero assicurativi e bancari, cresciuti rispettivamente del 66% e del 62%; al terzo posto, ma con una crescita “solo” del 30%, i titoli del settore minerario.
Questa crisi, stando ai numeri, non ha proprio insegnato nulla alle banche. Anzi, le ha rese ancora più avide perché timorose di venire rimesse in carreggiata e costrette a fare il loro lavoro. Quando quindi Tremonti parla di gestazione di una nuova crisi dovuta a decisioni come quelle prese dai board di Intesa-San Paolo e Unicredit non sbaglia. Anzi, ci vede lungo e temo sia molto preoccupato.
Anche perché al di là delle nuove svalutazioni all’orizzonte, l’inverno porterà con sé il rischio di default nell’Est Europa, mercato dove moltissimi banche europee sono pesantemente esposte: un domino che parta, ad esempio, dall’Austria potrebbe risultare un grattacapo non da poco non solo per i governi ma soprattutto per Bce ed Ecofin.
Speriamo di eccedere con le cautele e con i timori, ma i dati che giungono dai mercati parlano chiaro e nonostante possa non piacere la logica degli aiuti di Stato – personalmente non mi piace – le decisioni delle principali banche Ue di smarcarsi dai piani di protezione governativi per poter sguazzare ancora sulle strade della speculazione sono quantomeno criminogene: ne va, infatti, non solo del bene comune ma della tenuta stessa del sistema. Tenuta che questo autunno caldo di recessione e disoccupazione galoppante metterà di per sé già parecchio a rischio.