Il nome di Cassandra è diventato sinonimo di quello di “profeta di sciagure”; nel lessico odierno, avrebbe l’appellativo di “Gufo dei gufi”. Secondo l’Eneide di Virgilio, però, la principessa troiana non aveva tutti i torti. Anzi, aveva visto nel giusto esprimendo timori e perplessità nei confronti del cavallo donato dai Greci. Perché ricordare la gentildonna? Sarà probabilmente assimilato a Cassandra il collega e amico Luigi Campiglio dopo l’intervista pubblicata su queste pagine. Eppure, sotto il profilo economico, Campiglio ha perfettamente ragione: nell’economia mondiale, italiana ed europea, c’è stato uno spiraglio di crescita all’inizio nel 2015, Governo e Parlamento non hanno utilizzato la finestra di opportunità loro offerta e ora è troppo tardi per tentare di farlo. L’economia mondiale è in fase di marcato rallentamento. Con le elezioni presidenziali alle porte, e con sussulti di freni all’economia reale tali da indurre le autorità monetarie americane a mantenere una politica espansiva, c’è il rischio che gli stessi Stati Uniti non riescano a tirare la carretta dell’economia mondiale.
In questo contesto, la politica economica e finanziaria dell’Italia viene basata su una crescita del Pil dell’1,2% quest’anno e su aumenti ulteriori in quelli successivi. Poco importa che prima di una crisi che ha marcatamente ferito la capacità produttiva dell’Italia, nel lontano 2007, Bce, Banca mondiale, Fmi e Ocse stimassero a 1,2% per anno la crescita potenziale a medio termine del Paese a ragione della demografia, dell’obsolescenza dell’apparato tecnologico e della fragilità di banche e imprese (determinanti che in questi anni non sono migliorate, ma peggiorate). Poca importa che negli ultimi 14 anni, 11 volte i Governi (quale che fosse il loro colore) hanno peccato di eccessivo ottimismo. Poco importa che i venti maggiori istituti di previsioni econometriche (tutti privati, nessuno italiano) pubblichino stime più caute. Poco importa che i dati trimestrali Istat avvertano che non siamo ancora usciti dalla recessione e rischiamo o la stagnazione secolare o la deflazione (ambedue queste ipotesi sono, nella storia degli ultimi cento anni, associate a profondi cambiamenti politici). Ora siamo legati a una crescita probabilmente immaginaria dell’1,2% per il 2016 in aumento negli anni successivi.
Il Def, infatti, non è una tesina econometrica per studenti di economia, ma il documento che delinea la politica economica dell’Italia. Con una crescita reale dell’1,2% e un incremento dell’inflazione al 2% l’anno (altra stima più immaginifica che improbabile), il Pil nominale aumenterebbe del 3,2% l’anno, con sollievo (piccolissimo) al fardello del debito pubblico. La strategia è semplice – to grow out of debt (crescere per uscire dal debito) -, anzi semplicistica. È, però, debole anche con una crescita reale dell’1,2% (i Paesi che l’hanno praticata con successo hanno avuto, per diversi anni, tassi di crescita reale del 4-6% l’anno). E crolla se, come realisticamente ipotizzabile, la crescita reale (se ci sarà) si aggirerà sullo 0,5% del Pil e l’inflazione resterà su un tasso annuo dell’1%. Tra sei mesi ci troveremmo a chiedere flessibilità: Ci è stato già detto che ne abbiamo avuta sin troppa.
È evidente che al momento al Governo interessa principalmente mostrarsi con il volto sorridente alla campagna per il referendum. Ma la campana potrebbe scoccare prima di allora e – lo abbiamo sempre sostenuto su questa testata – il fardello del debito pubblico è un freno a mano della nostra economia.
Occorre trovare un altro percorso dato che quello to grow out of debt non pare, a essere intellettualmente onesti, praticabile. Si deve agire direttamente sullo stock con misure che possono non essere politicamente appetibili. La prima riguarda, anche per fini equitativi, la conversione della rendita (come venne attuata da Quintino Sella): ci sono ancora detentori di titoli di Stato a lungo termine, acquistati in epoca di tassi d’interesse alti (quella del popolo dei BOT), essi godono di cedole di lusso in termini reali (dato il calo dei tassi). Altro che pensioni d’oro o d’argento. Il ministero dell’Economia e delle Finanze dovrebbe fornire dati e proporre una riduzione della rendita alla media delle cedole dei titoli emessi negli ultimi dieci anni. Migliorerebbero in parallelo efficienza ed equità.
La seconda consiste nel dare un termine imperativo a Regioni e Comuni perché la loro partecipate diminuiscano da ottomila a mille, ovviamente con ammortizzatori sociali per i lavoratori ma con azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori che le hanno gestite con la combinazione di prebende stellari e deficit abissali. La terza è la privatizzazione completa (non parziale) di Poste italiane e di Enav, l’inizio di quella delle Ferrovie e, soprattutt,o la privatizzazione totale della Rai (secondo linee riassunte più volte su questa testata e che hanno ben funzionato in altri Paesi). Il Presidente del Consiglio, che si dice cattolico, non dimentichi che l’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan (organo apolitico e distinte e distante dalla nostre beghe) la considerava la “madre di tutte la privatizzazioni” ancora prima che il cosiddetto “servizio pubblico” venisse utilizzato per la promozione di libri di mafiosi in cui si elogiano i boss.
Infine, sarebbe auspicabile che Governo e Parlamento leggano l’ultima fatica di Francesco Forte (“Einaudi versus Keynes”, IBL Libri 2016). Ne uscirebbe un migliore “aggiornamento” del Def quando, tra non molto, occorrerà prepararlo.