La crescita rallenta in maniera impressionante. I prezzi frenano più di quanto si prevedeva pochi mesi fa. Ma la Bce non reagisce. O meglio, lo fa a passo di lumaca. La Banca centrale si muove in direzione del sospirato Quantitative easing, ma sposta in avanti l’avvio della manovra: si farà, probabilmente si farà, ma solo l’anno prossimo. Appuntamento fissato quindi per la riunione del 22 gennaio? “Non necessariamente – replica Mario Draghi – Dipenderà anche dall’andamento del petrolio”.
I mercati, già durante l’attesa conferenza stampa del presidente della Bce, non nascondono la loro delusione: perdono colpi le Borse, a partire da Milano e Madrid, le più interessate a un piano di acquisto di titoli da parte della Banca centrale. Rimbalza, ma non troppo, il rendimento dei Btp (2,06%, dopo esser scivolato fino a 1,998%). Anche l’euro torna sopra 1,23 sul dollaro. Un passo indietro, insomma, ma non un tonfo. A conferma che gli operatori non s’illudevano più di tanto in una mossa più ardita e vigorosa della Bce.
In una congiuntura come quella attuale, condizionata da previsioni allarmanti sul Pil (nel 2015 la crescita sarà solo dell’1% contro l’1,6% previsto meno di sei mesi fa) e sulla dinamica dell’inflazione (solo 0,7% l’anno prossimo, l’1,4% nel 2016), altre banche centrali avrebbero probabilmente già messo in funzione il bazooka, ovvero robusti acquisti sul mercato. Ma la Bce, per sua natura, è una banca diversa, in cui non basta semplicemente decidere di ricomprare i propri titoli di Stato, ma bisogna vagliare con attenzione le “misure non convenzionali”. Sotto la pressione di chi, come la Bundesbank (il 26% del patrimonio dell’istituto, per dirla in cifre), non perde occasione per dimostrare la sua ostilità a qualsiasi deviazione verso linea espansiva, compresa l’accusa che questi acquisti potranno esser ritenuti illegali da un tribunale (vedi la Corte federale di Karlsruhe).
L’ostacolo dei falchi tedeschi, è il messaggio del presidente della Bce, può ostacolare ma non frenare all’infinito l’azione della Bce. “Secondo lei – replica secco alla domanda in proposito di un giornalista il presidente della Bce – noi perderemmo tempo a discutere di operazioni illegali? Noi siamo convinti che queste operazioni rientrino ampiamente nel nostro mandato, che è quello di vigilare sul tasso di inflazione perché si mantenga poco sotto il 2%. Faremmo una cosa illegale se non rispondessimo all’obiettivo per cui siamo stati nominati”. E non esiste il vincolo dell’unanimità. “Già in altre occasioni – sottolinea il presidente – abbiamo preso decisioni importanti a maggioranza”. Anzi, già nella riunione di ieri si è manifestato uno strappo significativo. Fino al mese scorso, nel comunicato finale, si faceva cenno alla prospettiva di un’espansione prevedibile del bilancio della Bce ai livelli di inizio 2012. Stavolta si parla di espansione voluta ai livelli del 2012. “Il linguaggio – sottolinea Draghi – in questo caso ha importanza: c’è una grande differenza tra expected e intended. Non a caso su questo vocabolo abbiamo votato a maggioranza”. Un bell’esempio delle difficoltà che deve affrontare il presidente della Bce, un po’ tirando di sciabola, un po’ di fioretto.
Non è facile, del resto, scegliere che cosa, quanto e per quanto tempo comprare, sotto i cieli di un’Europa a 18 velocità, da Atene ad Helsinky. “L’unico asset di cui non abbiamo mai parlato – dice Draghi – è stato l’oro”. In passato, si viene a sapere, si è dibattuto sull’idea di comprare dollari o sterline, un modo rapido per indebolire l’euro. Ma l’idea, pare, è stata accantonata. Ora, però, occorre scegliere tra Btp, Bonos, Oat, Bund e così via. E per quanto tempo dovrà agire il bazooka di Francoforte? Le complicazioni politiche si sommano a problemi tecnici di non facile soluzione. Ma per ora accontentiamoci della conferma, per la prima volta ufficiale, che la Bce è intenzionata a una manovra di espansione monetaria basata sui titoli di Stato.
Meglio tardi che mai, a giudicare dal bollettino sempre più triste in arrivo da Eurolandia. Certo, Draghi sottolinea che il calo del petrolio è una buona notizia per l’economia europea (10 miliardi risparmiati, il 2% del Pil dell’Unione europea). Ma comporterà anche conseguenze collaterali, a partire dal nuovo impulso al calo dei prezzi (-0,4% per quest’anno, -0,1% l’anno prossimo). Ci saranno effetti positivi per la competitività dell’export europeo, ma modesti perché accompagnati da un calo della domanda internazionale che colpirà le economie più importanti, Germania, Francia e Italia. Insomma, stavolta non esistono “buoni” e “cattivi”, bensì un generale rischio deflazione che nasce, soprattutto, dall’intransigenza di Berlino che frena lo sviluppo della domanda interna.
A Draghi non resta che ribadire il solito consiglio: “Ci vuole un decisore unico per i bilanci europei, che non sarebbe la negazione della sovranità ma una rinuncia vantaggiosa per tutti”. E difendere lo striminzito piano Juncker: “È l’unica cosa che abbiamo”. Piano, ma sempre avanti, insomma.