Se le forze politiche non riuscissero ad offrire al Capo dello Stato una formula di governo sostenuta da una maggioranza parlamentare in entrambe le Camere, e non vi fosse la sufficiente disponibilità a sostenere un governo di larghe intese o di unità nazionale, nuove elezioni sarebbero inevitabili. Ma sarebbe una soluzione di per sé stessa capace di innescare un esito finalmente positivo al fine dell’attivazione della nostra forma di governo parlamentare? A ben riflettere, senza un mutamento dei comportamenti dei soggetti della rappresentanza politica si rischia un grave processo di avvitamento del sistema istituzionale.
Siamo tornati al sistema elettorale prevalentemente proporzionale, ma si utilizzano ancora gli schemi del bipolarismo conflittuale. Insomma, i partiti, i movimenti e le coalizioni devono dimostrarsi capaci di svolgere un ruolo diverso da quello di reciproca interdizione cui si sono abituati. Devono intraprendere un percorso diverso, competere per divenire il “polo di attrazione” indispensabile per conquistare la direzione politica della Nazione. Un ruolo che si acquista non più per diretta investitura popolare, ma operando negli spazi di mediazione possibile con le altre forze politiche e mantenendo la necessaria interrelazione con un elettorato assai mobile. Insomma, in virtù di un processo di “autoconsapevolezza” che, va riconosciuto, è difficile realizzare in pochi giorni. Tanto più che l’eventualità di un rapido insuccesso dell’accordo di coalizione faticosamente trovato, può esporre a feroci critiche nelle elezioni immediatamente successive.
Per colmare rapidamente questo deficit comportamentale, allora, si suggerisce di agire in via meccanica, attraverso una riforma del sistema elettorale che dovrebbe precedere lo scioglimento anticipato. Ipotesi, invero, assai ardua. Nelle presenti condizioni, infatti, la modifica della legge elettorale potrebbe dare luogo a vantaggi e svantaggi che ciascuna delle parti in competizione potrebbe ritenere ingiusti o ingiustificati. Tra l’altro, per approvare una nuova legge elettorale non basterebbero le attuali Commissioni parlamentari “speciali” sugli atti del Governo. Queste infatti, possono intervenire soltanto sui disegni di legge di conversione dei decreti legge. Ma una riforma elettorale effettuata con decretazione d’urgenza è davvero un azzardo costituzionale. Allora, si dovrebbe mettere davvero in moto il Parlamento, costituendo le Commissioni permanenti ed eleggendo i rispettivi Presidenti. E’ chiaro, però, che, in presenza di un Governo dimissionario, senza nessuna prospettiva di un nuovo Governo, ed anzi con l’orizzonte di immediate elezioni, il rischio di balcanizzazione e di frantumazione nei gruppi parlamentari è altissimo. Ed ancora, per giungere ad un qualunque accordo nelle Camere, si dovrebbe o replicare lo schema che ha condotto all’elezione dei Presidenti delle Assemblee oppure cercare soluzioni alternative ed originali. Per di più, si esporrebbe il Capo dello Stato all’eventuale promulgazione di una legge elettorale fortemente invisa ad una delle tre parti.
Insomma, se si intendesse davvero pervenire ad una legge elettorale riorientata ai principi del sistema maggioritario, si dovrebbe necessariamente passare attraverso la costituzione di un nuovo Governo sulla base di un accordo per così dire “minimo” tra i tre poli presenti in Parlamento. Il perseguimento di questo obiettivo potrebbe essere facilitato dal Capo dello Stato, anche ricorrendo a quei metodi e passaggi di decantazione, riflessione e confronto che sono stati già impiegati in altri delicati passaggi istituzionali durante le crisi di governo. E se ciò non andasse a buon fine, la strada verso le elezioni anticipate con l’attuale Governo dimissionario e con il vigente sistema elettorale sarebbe inevitabile. Ogni altra soluzione sarebbe ormai definitivamente preclusa, dato che il Parlamento appena eletto si sarebbe dimostrato refrattario ad ogni possibile intesa.
Anche un Governo “elettorale” — costituito cioè soltanto per portare il Paese al voto e destinato all’inevitabile sfiducia, come peraltro già accaduto in passato — sarebbe inteso come un’ingiustificata forzatura, e difficilmente potrebbe essere considerato come garanzia maggiore di neutralità rispetto all’esecutivo attualmente in carica per gli affari correnti. Né si dimentichi che una sfiducia espressa pubblicamente dal Parlamento indebolirebbe ancor più l’Italia sullo scenario europeo e internazionale.