Mentre in Senato infuria la bagarre contro il Jobs Act, Renzi a Milano ottiene l’approvazione di Angela Merkel al vertice informale dei capi di Stato e di governo dell’Ue sul lavoro. Prima dell’inizio del vertice, il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, si è congratulato con Renzi per il Jobs Act. E anche il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha detto: “Il governo italiano è fantastico, sta facendo il massimo per mobilitare gli investimenti e io sostengo il governo italiano in questo”. Ne abbiamo parlato con Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera.
Qual è il vero significato di quanto sta avvenendo sul Jobs Act?
Renzi ha portato avanti una prova di forza con Cgil e minoranza del Pd e l’ha vinta. Al premier è riuscito così ciò che non era riuscito a Monti, a causa dell’opposizione dell’allora segretario del Pd, Bersani. Imponendo la fiducia Renzi ha invece costretto la minoranza del Pd ad adeguarsi. In Europa ciò rappresenta un titolo di merito, perché per ragioni più o meno condivisibili l’articolo 18 era diventato una cartina di tornasole per verificare la reale capacità riformatrice del governo italiano. Renzi ieri ha portato a Milano questo risultato come un fiore all’occhiello.
Renzi può davvero cantare vittoria?
Il Pd si è dovuto allineare e quindi Renzi ha vinto. Quando si mette la fiducia su un provvedimento, chi non la vota significa che vuole fare cadere il suo stesso governo o che vuole cambiare partito. Bisognerà poi vedere se ne è valsa la pena. Alla luce dei decreti delegati e nel completamento di questo processo, vedremo che cosa cambierà effettivamente nel regime dei licenziamenti. C’è da augurarsi che questa volta, avendo fatto questa prova di forza, si vada fino in fondo e si modifichi completamente il sistema dei licenziamenti eliminando il reintegro in tutti i casi, tranne che per le discriminazioni.
Che cosa ne pensa dell’ennesima fumata nera sulla Consulta, che disattende un preciso invito di Napolitano a fare presto?
Napolitano ha ragione a preoccuparsi, ma il Quirinale ha un numero di membri della Consulta di sua nomina proprio come il Parlamento. Ritengo legittimo che i due nomi che sono proposti non trovino l’approvazione dei due terzi di Camera e Senato. La Costituzione prevede una maggioranza molto qualificata, e bisogna quindi scegliere nomi ed accordi politici per superare un ostacolo così alto. Oltre che ai parlamentari, Napolitano dovrebbe rivolgere il suo appello anche ai capi di partito che si sono accordati su questi nomi, invitandoli a trovare personalità meno legate ai partiti che godano di un consenso maggiore in Parlamento.
Passiamo invece al processo di Palermo. Di che cosa è segno che il capo dello Stato sia chiamato a testimoniare in un’aula di fronte ai boss mafiosi?
Questo fatto avrebbe un bruttissimo significato, e io spero che non accada. Il coinvolgimento di Napolitano come testimone in questo processo non era necessario all’accertamento dei fatti. Il Quirinale aveva segnalato che sul punto specifico su cui sarà interrogato, tutto ciò che sapeva il presidente era già stato reso noto. Si sapeva inoltre che l’interrogatorio di Napolitano apriva la strada al fatto che inevitabilmente Riina e Bagarella chiedessero di partecipare alla seduta.
Questi fatti documentano che l’autorevolezza stessa del capo dello Stato è messa in discussione?
Napolitano ha accettato di fare qualcosa che poteva anche non fare. Gli era stato richiesto con grande energia da tutti i leader del Parlamento di accettare un secondo mandato perché le Camere non erano in grado di trovare un nuovo capo dello Stato. Il secondo mandato fin dall’inizio era chiaramente a termine, come ha detto lo stesso Napolitano. Questo fatto può essere utilizzato da quel coacervo di ambienti che da tempo tentano di scagliarsi contro di lui, nella speranza che il capo dello Stato si sia indebolito. Nella realtà però il Quirinale non è indebolito, ha gli stessi poteri di prima, sempre che le altre istituzioni dello Stato non cerchino di indebolirlo.
(Pietro Vernizzi)