Alla Bce si posso imputare tante cose, ma non di non avere le idee chiare. Chiarissime, addirittura cristalline. È bastata solo una settimana dal bagno di ottimismo di Jean-Claude Trichet rispetto alla crescita dell’eurozona, definita “eccezionale” ed ecco che nel suo Bollettino mensile la Banca centrale europea ribalta il quadro: l’economia dell’area euro dovrebbe continuare a beneficiare della crescita globale e delle misure di sostegno al credito (quali non si sa, visto che la Cina rallenta e le misure di sostegno non fanno altro che creare altro debito), «ci si attende tuttavia che la ripresa dell’attività sia frenata dal processo di aggiustamento dei bilanci in corso in diversi settori e dalle prospettive per il mercato del lavoro».
La Bce spiega anche che dopo «l’eccezionale deterioramento» degli ultimi due anni, è «urgente» risanare i conti pubblici da parte dei paesi dell’area euro: ma va, non ce ne eravamo accorti, pensavamo che il salasso per salvare la Grecia fosse stato un esercizio di stile! Francoforte nel suo bollettino mensile chiede a «tutti i paesi» di «precisare misure di aggiustamento credibili incentrate sul lato della spesa, restando comunque pronti ad attuare eventuali misure aggiuntive nei prossimi anni. Per favorire il processo di risanamento delle finanze pubbliche, promuovere l’adeguato funzionamento dell’area dell’euro e rafforzare le prospettive di una maggiore crescita sostenibile è indispensabile perseguire riforme strutturali di ampia portata – si legge nel bollettino -. Profonde riforme risultano particolarmente necessarie nei paesi che in passato hanno subito perdite di competitività o che al momento soffrono di disavanzi di bilancio e disavanzi esterni elevati».
Ditelo alla Fiom e a qualche pretore del lavoro, se ce la fate. E restando in Italia, ecco giungere la conferma di quanto il sussidiario.net scrive ormai da settimane: l’Istat ha infatti confermato le prime indiscrezioni, l’inflazione a luglio è salita all’1,7%, accelerando rispetto al +1,3% di giugno, uno 0,4% in più su base mensile, un dato pari a quello della Cina!
Vengono così ribadite le stime preliminari: si tratta del rialzo più alto dal dicembre del 2008, trascinato – si legge nella nota – dai prezzi dei beni energetici (+5,3% su anno, +0,8% su mese). Raffrontando i dati italiani a quelli europei, emerge un elemento di ulteriore incremento. L’indice armonizzato (quello usato in sede Ue) – aggiunge l’istituto di statistica – ha segnato un +1,8% su base annua, accelerando fortemente rispetto al +1,5% di giugno: anche in questo caso è il valore più alto dal dicembre 2008. Rispetto al mese prima, invece, c’è stato un -0,9%, dopo il +0,1% di giugno.
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Secondo la Banca europea centrale, nel medio periodo l’inflazione nell’area euro dovrebbe restare «moderata», mantenendo la stabilità dei prezzi e sostenendo il potere d’acquisto delle famiglie. Per la Bce «le aspettative d’inflazione restano saldamente ancorate, in linea con l’obiettivo di mantenere i tassi d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine». La pensavano così anche in Gran Bretagna, ma la Bank of England, che è un filino più realista della Bce, mercoledì scorso, in occasione della riunione del Monetary Policy Committee, ha ammesso chiaramente non solo di dover rivedere al ribasso le stime della crescita economica ma anche – e soprattutto – di aver sbagliato le valutazioni, con l’inflazione che viaggia in area 3% e non sotto il 2%.
Un mea culpa simile, statene certi, arriverà in fretta anche da parte di Francoforte, dove forse si sprecano i curriculum altisonanti, ma anche dove nessuno pare avvezzo ad andare a fare la spesa comprando pane e latte. Ringraziando il Signore, sembra che la follia all’interno della fu maggioranza di centrodestra sia terminata e l’ipotesi di elezioni anticipate si allontani, almeno stando alla sorta di aut aut offerto da Silvio Berlusconi ai dissidenti finiani.
Il perché di questa mano tesa è presto detto: Giulio Tremonti ha parlato al Cavaliere dicendogli chiaramente che in caso di urne anticipate, i mercati ci avrebbero ammazzato. Letteralmente. Lo conferma l’excusatio non petita dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, che mercoledì scorso ha cercato di gettare acqua sul fuoco della speculazione affermando che le perdite derivanti dell’esposizione estera degli istituti italiani possono arrivare a incidere fino al 3% del capitale, contro una media europea dell’8% e addirittura del 18,2% per il sistema bancario tedesco. Il che ci porta a fare due considerazioni: la prima, Deutsche Bank continua a essere messa male sul fronte ateniese e forse anche su quello spagnolo, d’altronde, con l’indigestione di cds iberici ed ellenici che hanno fatto, come cade, cade in piedi. Ora si spiega in tutta la sua emergenzialità il divieto di short selling sui titoli degli istituti tedeschi dello scorso maggio, chiesto proprio dal numero uno di DB, Ackermann. Secondo, come mai però i cds sull’Italia continuano a galoppare?
Mercoledì scorso i dati che arrivano da CMA Vision non erano affatto buoni: le assicurazioni sul debito a cinque anni del Belpaese sono aumentate di quasi il 6% intraday, mentre il martedì avevano sfiorato il 5%. Ora siamo arrivati a quota 180 punti base, che è sempre meno del record di 209 punti base dello scorso maggio, ma è un livello in crescita costante.
Come si legge nella nota metodologica, l’Abi minimizza: «La rischiosità del portafoglio delle banche italiane è al di sotto della media dell’area euro, sia prendendo in considerazione i cds sui titoli di stato a 1 anno che quelli a 10 anni». Peccato che gli analisti della City, in tutti i loro report, siano pronti a scommettere che i cds arriveranno a 400 punti base, se si andasse alle urne. Capito il ritorno a più miti consigli da parte degli attori delle baruffe romane in atto?
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Siamo, fuor di metafora, sul Titanic e Giulio Tremonti non ha voglia né di ballare sul ponte, né di azzuffarsi per una scialuppa. Chapeau al suo senso di responsabilità e, vale la pena utilizzare questo concetto alto, al suo senso dello Stato. Anche perché all’estero non aspettano altro che infiocinarci per togliere da casa propria le attenzioni della speculazione. Non si spiega altrimenti l’attacco dello Spiegel, con tanto di tabelle che riproponiamo qui sotto, contro il rischio di deriva greca dell’Italia rispetto alle maturazioni del debito da qui al 2012: in effetti, ciò che l’Italia deve pagare non è poco.
Sono 251,5 miliardi di euro di maturazioni quest’anno, 192,2 l’anno prossimo e 168,2 nel 2012: un totale che sfiora il 25% del nostro Pil, tarato sul dato della Banca Mondiale del 2008 e stimato in 2,3 trilioni di euro. Insomma, tutto occorre tranne che instabilità politica e soprattutto urne anticipate, visto che se tutti gli analisti concordano sull’impennata dei cds qualche ragione, magari inconfessata e inconfessabile, c’è.
Se a questo uniamo il fatto che il fondo guidato da quella vecchia volpe di John Paulson si è già posizionato short sull’Italia in autunno, capite molto bene l’allarme di Tremonti e di Draghi al riguardo. Insomma, rischiamo davvero di diventare il nuovo anello debole dei Piigs, insieme ai nostri compagni di “i”, ovvero gli irlandesi. Lo spread sui bond celtici a 10 anni, infatti, mercoledì scorso è salito a 297 punti basi rispetto al benchmark del bund, questo nonostante la Bce abbia fatto filtrare voci di intervento a favore del debito irlandese, un completo voltafaccia rispetto al piano della Banca di ritirare il supporto di emergenza: detto fatto, in men che non si dica l’euro ha perso tre cents contro il dollaro, passando da 1,32 a 1,29.
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Per Patrick Honohan, governatore della Banca centrale irlandese e membro del board della Bce, «a questo livello gli spreads sono veramente ridicoli». Perché? Poiché a suo modo di vedere i critici continuano a non riconoscere il dinamismo dell’export irlandese e il fatto che la nazione stia tornando rapidamente a un surplus di conto corrente, oltre alla riforma fiscale posta in essere. Peccato che gli investitori, più che a questi indicatori, guardino ad altri: ad esempio l’ennesima messe di denaro sborsata per salvare Anglo Irish Bank, come confermato dalla Commissione Europea che ha reso noto come i costi siano sensibilmente saliti rispetto alle stime di questa primavera, toccando i 24,3 miliardi di euro.
Questo è il motivo per cui gli spreads vanno alle stelle: i costi. I “bad debts” della Anglo Irish Bank sono infatti già parcheggiati presso la National Asset Management Agency (NAMA) irlandese con un haircut medio del 50%. Per Antonio Garcia Pascal della Barclays Capital, «la strategia iniziale della NAMA ha funzionato ma ora viene sempre più chiaramente vista dai mercati come basata su un approccio eccessivamente costoso».
Pesano, soprattutto, i dubbi riguardo la reale esposizione della banche irlandesi al mercato property britannico. Per Fergal O’Brien, capo economista alla Irish Business and Employers Federation, «esiste un’altra minaccia incombente per le banche irlandesi, ovvero l’eccesso di mutui accesi durante il boom a tassi ormai fuori mercato. Questo è un enorme problema, poiché gli istituti oggi sono intrappolati in contratti che generano solo perdite».
Ulteriori tagli e sacrifici difficilmente sarebbero sopportati dalla popolazione: i salari sono già stati tagliati del 13% (pensioni comprese) in ossequio alla “svalutazione interna” imposta dal Fmi, il deficit di budget è al 14% del Pil, il tasso di disoccupazione è salito al 13,7% e in fase di deflazione il Pil nominale si è contratto di oltre il 20%.
Insomma, forse i timori degli investitori – tramutatisi in picchi dello spread sui titoli a 10 anni – non sono così irrazionali ed emotivi: certo, un po’ di speculazione pesa ma le liabilities delle banche irlandesi sono una bomba a orologeria innescata. Altro che l’ottimismo a giorni alterni di Jean-Claude Trichet e dei suoi sodali.