C’è un’espressione molto bella che ha usato Thomas Mann e che è stata fatta propria da Konrad Adenauer e, più recentemente, anche da Helmut Kohl: “Non serve un’Europa più tedesca, ma una Germania più europea”. Questo è vero per la Germania, ma è vero allo stesso modo per l’Italia. Essendoci astratti per un ventennio e sottratti al dovere fondamentale di fare riforme profonde che mettessero il nostro paese nelle condizioni di tornare a competere, oggi ci troviamo non solo nella condizione di essere un paese in pericolo, ma di essere un paese che da tutti viene visto come “il pericolo”.
Nei giorni scorsi è emerso che l’Italia ha sforato nuovamente il tetto del proprio debito facendo registrare un nuovo record di 1966 miliardi. Questo vuol dire in buona sostanza che tutti i governi che si sono alternati alla guida del nostro paese da decenni non sono riusciti a intaccare il meccanismo della spesa corrente, e soprattutto, sono rimasti in balìa dei mercati, esposti a quelle che sono le oscillazioni degli interessi sul debito. Questa mancanza di consapevolezza delle condizioni critiche in cui versava il paese ha determinato dei corto circuiti di natura politica senza precedenti. Per cui schieramenti anche con vistose maggioranze, come è capitato ad esempio all’ultimo governo Prodi, affette da un tasso di ideologia troppo alto, non sono riusciti a produrre nessuna riforma. E vistose maggioranze di centrodestra affette da tassi inenarrabili di personalismi hanno sortito gli stessi effetti. L’esito di questa condizione è stato un fatto senza precedenti nella storia della democrazia europea: un governo è stato espropriato delle proprie prerogative e obbligato a scegliere la strada di un governo tecnico per far fronte alle proprie necessità.
Questo problema va risolto subito. Se Partito Democratico e Popolo della Libertà continueranno a dire che mai e poi mai faranno nulla insieme, inevitabilmente vedranno il proprio patrimonio di consenso eroso da forze irresponsabili, che faranno precipitare il paese nell’ingestibilità più assoluta. Io credo che sia molto più leale nei confronti dei cittadini se spiegassimo loro che questo è il momento di mettere tutto il peso di cui siamo capaci sulla stessa mattonella. Solo così il più fragile tra di noi, l’impresa più piccola, quella che ha maggiori problemi di mercato, quella che non è pagata dalla pubblica amministrazione, come accade nell’ASL di Napoli 1, da 1.676 giorni (poco più di 4 anni e 7 mesi per pagare una fattura), possono avere speranze di farcela.
Questo è un dovere che è comune e rispetto al quale non possiamo sottrarci. Questo tempo deve essere usato per una battaglia di natura culturale, che carichi chi ha responsabilità politica di questa visione certa, che ci porti in pochi mesi ad avere un governo capace di riforme profonde non perché tecnico, ma perché politico. Perché i mercati, ma soprattutto il gioco degli speculatori non si lasciano trarre in inganno. Nessuno infatti crederà alla serietà delle manovre italiane, per quanto onerose, se a garante di queste manovre ci sarà ancora un uomo tristemente solo. Oggi infatti i partiti che lo sostengono in Parlamento, mentre alle ore 13 gli danno il voto di fiducia, alle ore 15 ti dicono che mai condivideranno quello che lui ha fatto. Come sotto altri aspetti ha già scritto nei giorni scorsi su questo giornale Giorgio Vittadini “non è ancora troppo tardi per costruire insieme programmi che favoriscano libertà, intrapresa, sussidiarietà e solidarietà nella scuola, nell’università, nella sanità, nell’assistenza, nel mercato del lavoro, nell’impresa e possono divenire contenuti di azione di un governo bipartisan”.
I partiti si spoglino di questa ambiguità e dicano e stabiliscano di fronte ai cittadini un impegno chiaro. Un’ agenda di riforme in cui sia chiaro chi ci perde e chi ci guadagna. Se stabiliamo dei criteri precisi attraverso i quali i partiti possono garantire la ripresa del paese, stiamo certi che chi ci ascolta comprenderà. Il tempo in cui viviamo è eccezionale, a questo tempo eccezionale si risponde con una presa di coscienza eccezionale. Ci è capitato un’altra volta nella storia recente, quando la guerra ci ha messo in ginocchio.
Finita quella guerra una classe politica che era separata, non dagli insulti, ma dalle pallottole, non dagli improperi e dalla satira, ma dalle bombe a mano, ha avuto la forza e la consapevolezza, pur sapendo di avere di fronte magari l’assassino del padre, del fratello o della sorella, di farsi carico del destino del paese.
Se noi non dimostriamo una maturità e una consapevolezza del genere, nel contesto dell’Italia prima e ancor più nel contesto dell’Europa poi, la luce che vedremo in fondo al tunnel non sarà quella della speranza, ma sarà quella del conflitto. Saranno i bagliori del conflitto, perché quello che accade sui nostri mercati non è diverso da quello che, attraverso le bombe e le cannonate, garantiva la prepotenza di uno stato su un altro 70, 80, 100 anni fa.
La storia ci chiede di essere veri, ci chiede di essere seri, di essere cioè umani dentro le circostanze che viviamo, di chiamare le cose col loro nome e affrontare gli impegni di questi mesi in modo incontrovertibile. Ciò che mi affligge è che il contesto mediatico nel quale viviamo ci fa pensare che i problemi del nostro paese vadano dalle dimissioni di qualche politico ai bisticci sulle intercettazioni. Il cuore vero dei problemi è spesso contraddetto da un uso scorretto dei media. Che ottiene l’effetto di far crescere in noi un senso di angoscia profonda. I problemi ci sono e sono posti dalla storia. I problemi della storia li risolvono gli uomini. Quindi più noi facciamo questo esercizio di verità e abbiamo la forza di andare a vedere come stanno le cose, più siamo capaci noi di dettare l’agenda, non solo ai media ma anche alla politica. Perché altrimenti la sensazione di svuotamento, d’impossibilità di reagire che degenera poi in quell’atteggiamento comunemente chiamato antipolitica, non ci fa capire neanche cosa sia l’antipolitica. L’antipolitica è l’amore del nulla, è nichilismo puro, è voglia di dissolvimento di una società. La società, lo stato, la politica sono il frutto di una libera scelta. Quando un problema non si risolve, se non vogliamo diventare preda dello scontro tribale, cerchiamo una mediazione, cerchiamo la figura del mediatore. Senza questa capacità di mettere in fila i problemi e trovare delle risposte l’uomo è nulla. Il problema quindi è far lavorare la politica: che la politica eserciti il suo compito, raggiunga le sue finalità. E quelle finalità hanno come esito ultimo e definitivo il miglioramento del nostro vivere.