La severa recessione che sta colpendo l’Europa, insieme al resto del sistema economico mondiale, costituisce indubbiamente il più severo “stress test” affrontato dall’Unione Europea, e in particolare dalla sua moneta unica, sin dalla fondazione.
Alcuni si spingono ad affermare che l’Ue non sopravvivrà a tutto questo, vittima delle diversità e delle gelosie nazionali. Il risultato del recente Consiglio Europeo, con la mancanza di un accordo su un comune piano di sostegno alle economie dell’Est Europa (che però tutte uguali non sono) non sarebbe che il primo segnale di tale crisi.
Si tratta a mio parere di un’opinione che sottovaluta la capacità di giudizio della classe politica europea; al di là della retorica nazionale spesa in abbondanza a uso e consumo del proprio elettorato, le cancellerie europee hanno ben chiaro che tanti e tali sono i legami intrecciatisi in dieci anni di moneta e mercato unici che non vi sono in questo momento alternative meno costose al proseguire uniti sulla strada della lotta alla crisi economica.
Piuttosto, occorre chiedersi se le risposte di politica economica che in questo momento vengono elaborate, a volte poco coordinate e in parte figlie di tale retorica nazionale, costituiscano la strategia ottimale per il nostro continente, soprattutto una volta superata la fase critica.
Confrontando i dati, sembrerebbe di poter argomentare che il quadro europeo sia meno compromesso di quello americano: il Pil dell’Ue è previsto contrarsi in media del -1,5% (3,5 punti sotto il potenziale di crescita), a fronte del -2% americano (cinque punti sotto il potenziale), mentre il tasso di disoccupazione europeo, stimato intorno al 9%, si colloca poco al di sopra del suo tasso naturale (tra il 7 e l’8%), a fronte di un tasso americano (8%) al doppio del suo valore strutturale.
Possiamo allora concludere che l’Unione Europea sta meno peggio degli Stati Uniti? Non sarebbe del resto la prima volta: nell’ultimo caso di recessione (2001), il Pil americano è sceso fino al -1%, mentre quello europeo è rimasto allo 0,5% (valori minimi registrati sul trimestre).
Purtroppo, tale constatazione lascia ben sperare solo in apparenza, in quanto contiene in sé i termini del vero problema europeo, ossia la velocità di ripresa una volta raggiunto il punto più basso della recessione. Nel 2001, ci vollero meno di due anni per gli Stati Uniti per recuperare un tasso di crescita in linea con il potenziale, mentre l’Europa ne impiegò quasi quattro.
La ragione è in parte legata alla diversa modalità di aggiustamento del sistema economico agli shocks. Negli Stati Uniti la crisi economica colpisce quasi subito e in gran parte il mercato del lavoro, che espelle gli occupati dalle imprese, mentre l’investimento delle imprese si ristruttura di conseguenza. In Europa accade l’opposto: la struttura di stato sociale è naturalmente distorta a favore della preservazione dell’occupazione, con conseguenze negative sulla capacità di aggiustamento del fattore capitale. La conseguenza di tale peculiarità europea è che il sistema economico continentale possiede una minore velocità di ristrutturazione e dunque un tasso di crescita post-crisi più basso.
Ogni fase di convalescenza del sistema da una situazione di crisi economica implica una riallocazione di risorse, per cui alcuni settori o alcune imprese vengono ridimensionati (nel 2001 l’Ict, oggi la finanza), mentre si aprono nuove opportunità imprenditoriali che riassorbono in breve tempo le risorse (lavoratori e capitale) così liberate.
In Europa le imprese maggiormente colpite dalla crisi tendono invece a mantenere l’occupazione (un fenomeno noto come labor hoarding), perché in tale senso opera la struttura di incentivi dello stato sociale. Questa rigidità genera una serie di ritardi nel processo di ristrutturazione, in quanto le imprese poco produttive che necessiterebbero di un ridimensionamento continuano a trattenere quote eccessive di lavoratori, sottraendoli alle nuove imprese più produttive (nello stesso settore o in altri). L’effetto di composizione, per cui le imprese meno produttive continuano a pesare di più in termini di risorse di quelle più produttive, abbassa il tasso di competitività medio dell’intero sistema e ne rallenta i tempi di recupero. Inoltre, la tendenza delle imprese a utilizzare le risorse per preservare i livelli occupazionali può penalizzare gli investimenti, con l’accumulo di ritardi nella quantità e qualità dello stock di capitale necessario a competere in maniera efficiente una volta superata la fase recessiva.
Ritardi che non è semplice colmare, in quanto il costo degli investimenti sarà più alto durante la ripresa, perché verosimilmente più alti saranno i tassi di interesse. A ciò si aggiunga la minore predisposizione dei lavoratori “protetti” a riqualificarsi nelle nuove attività, e il quadro della capacità europea di rilanciare la propria economia una volta superata questa recessione è, preoccupantemente, completo.
Per evitare tale stagnazione, una volta superata la fase acuta della crisi occorrerà dunque riallineare velocemente il sistema di incentivi in maniera tale da attivare sino in fondo gli ammortizzatori sociali esistenti allo scopo di proteggere i lavoratori, anziché i loro posti di lavoro. Le imprese devono poter fare a meno, in misura temporanea o permanente, dei lavoratori, al contempo operando gli investimenti necessari alla loro ristrutturazione, azione su cui è opportuno concentrare parte degli incentivi pubblici, soprattutto quelli miranti a garantire l’accesso al credito.
Il sistema degli ammortizzatori, eventualmente attraverso una sua rimodulazione che consenta di sfruttare gli stessi in maniera intensiva, deve garantire la preservazione del potere di acquisto dei lavoratori in mobilità, in attesa del loro riassorbimento nelle imprese ristrutturate o di nuova costituzione. Questa è probabilmente la migliore ricetta possibile per un rapido superamento della recessione e per la sostenibilità della ripresa europea nel tempo.
Siamo in altri termini davanti a un bivio di politica economica: accettare un picco di disoccupazione per il 2009-10, da compensare con adeguati sussidi, in attesa che la ristrutturazione delle imprese porti a una ripresa duratura, o evitare tale picco, risparmiando qualcosa sui sussidi, ma pagando tutti in termini di minore crescita del Pil e dei salari reali per i prossimi anni.
Purtroppo, l’enfasi dei piani di rilancio nazionali varati in questi mesi non sembra presagire una modifica di tale situazione, anzi; la condizionalità degli interventi pubblici alla preservazione del posto di lavoro sempre più spesso ricorre nella retorica politica continentale. Eppure, l’analisi economica ci dice che la migliore tutela possibile per garantire un adeguato reddito futuro a un lavoratore, e di conseguenza il senso del nostro stare insieme in Europa, potrebbe dover passare per un possibile temporaneo abbandono del suo posto di lavoro.