Il crollo del prezzo del petrolio sotto quota 38 dollari al barile martedì ha portato in calo le principali borse europee, con Milano che ha registrato il -2,26%. L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha commentato così: “I prezzi bassi del petrolio erano un’anomalia l’anno scorso, ora sono diventati un fatto strutturale. Siamo entrati in un periodo di prezzi bassi, è difficile fare previsioni, ma penso che il prossimo anno i prezzi saranno ancora bassi”. Intanto nel mese di ottobre la bilancia commerciale della Germania è migliorata, anche se come somma di due dati negativi: le esportazioni sono infatti calate dell’1,2% e le importazioni del 3,4%. Ne abbiamo parlato con Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Lei come legge i prezzi del petrolio continuamente in calo?
La principale conseguenza è un aumento potenzialmente molto elevato dell’offerta di petrolio nel mondo che si affianca alle nuove fonti di energia attualmente esplorate come lo shale gas. Ci sono dei prezzi che rimangono stabilmente bassi e che potrebbero anche registrare un’ulteriore diminuzione, almeno in questa fase. Non si vedono all’orizzonte motivi strutturali per un aumento del prezzo. Il contributo del prezzo del petrolio del resto è quello di spingere ancora di più verso il basso il tasso d’inflazione.
Il calo del prezzo del petrolio comporta più benefici o più rischi?
Il basso prezzo del petrolio è un beneficio per chi lo utilizza, perché paga di meno, ma allo stesso tempo è un segnale del fatto che l’offerta eccede di molto la domanda e che i processi produttivi in generale rallentano. In questa fase in particolare la diminuzione del prezzo del petrolio potrebbe in qualche misura frenare il processo di innovazione per quanto riguarda altre forme di energia rinnovabili. Di queste ultime certamente c’è la necessità per i problemi legati al cambiamento climatico di cui si sta discutendo nella stesura finale del vertice COP21 di Parigi.
Può spiegare meglio i potenziali benefici?
Nel breve periodo un calo del prezzo del petrolio può essere un beneficio in quanto entra come una componente nelle attività produttive. Il problema è che il prezzo del petrolio diminuisce come risultato di un perdurante eccesso di capacità produttiva a livello mondiale. Ci sono Paesi che vanno abbastanza bene, altri che decelerano, altri ancora che ristagnano perché la ripresa in Europa non c’è. Non siamo ancora in una fase brillante dell’economia mondiale come accadeva dieci anni fa.
Quanto pesa la dinamica dei prezzi del barile sulle esportazioni italiane verso i Paesi produttori di petrolio?
Il rischio vero è che si verifichi alla rovescia ciò cui assistemmo con la prima crisi petrolifera. In quella circostanza si modificarono le cosiddette ragioni di scambio, cioè il numero di barili di petrolio per un’automobile. La capacità d’acquisto di molti Paesi produttori, in particolare dei grandi Paesi arabi, certamente rimane elevatissima, ma è in rapida diminuzione.
Nel frattempo a ottobre le importazioni della Germania sono calate del 3,4% e le esportazioni dell’1,2%. È un dato positivo o negativo per l’Italia?
È un dato fortemente negativo. Una parte dell’attività produttiva italiana, soprattutto nel Centro-Nord, è legata a ciò che accade alle esportazioni e alla domanda interna tedesca. Se quest’ultima rallenta non è affatto una buona notizia.
Diverse auto tedesche hanno delle componenti italiane. Ci dobbiamo aspettare una tendenza negativa anche da noi?
La capacità delle imprese italiane di trovare nicchie di mercato è ben nota. Indubbiamente però questo è un momento molto difficile e faticoso.
Quanto ci devono preoccupare in definitiva i dati tedeschi?
La Germania è un gigante dai piedi d’argilla. Ha infatti bisogno di un flusso molto elevato di immigrati da impiegare nell’industria, o in alternativa della produzione di componenti a basso costo da parte di Paesi vicini come la Polonia e la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Senza uno di questi due fattori la produzione tedesca sarebbe in ginocchio domani. Il problema è che si tratta di un serpente che si morde la coda.
In che senso?
Se crea un polo alternativo di Paesi a lei troppo legati, Berlino finisce per generare l’ennesimo squilibrio all’interno dell’Europa. Se invece rinuncia a questo progetto, a quel punto rimane debole a livello di forza lavoro, e quindi avrebbe bisogno di un flusso d’immigrazione ancora maggiore di quello che c’è. La Germania dunque non si sta muovendo in una logica europea. Nell’attuale situazione Berlino apparentemente si rafforza, ma potrebbe cedere da un momento all’altro.
(Pietro Vernizzi)