I Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea, riuniti a Bruxelles il 9 e 10 marzo, hanno tirato fuori dal cappello un’idea già anticipata dalla riunione dei “grandi” (Germania, Francia, Italia e Spagna, ora che la Gran Bretagna è sulla via uscita). L’idea dovrebbe essere il tema centrale delle celebrazioni, a Roma il 25 marzo, dei sessanta anni dalla firma del Trattato fondatore dell’Unione europea. Ed è quella dell’Europa “a più velocità”. Non è una cattiva idea, ma non brilla neanche per innovazione. Dubito che sia quella che potrà rilanciare il progetto europeo, dato che da alcuni decenni l’Ue marcia a più velocità: le varie cooperazioni rafforzate (dall’accordo di Schengen al Trattato di Maastricht) altro non sono che intese per viaggiare a passi differenti verso l’obiettivo comune dell’integrazione europea.
È una proposta realistica, ma già in atto. E non semplice da coniugare con le pulsioni federalistiche che si pensava avrebbe dovuto essere il tema conduttore delle celebrazioni del 25 marzo e avrebbero dovuto anche fornire il contesto per risolvere temi e problemi scottanti sul tappeto (migrazioni, diseguaglianze, prosecuzione o meno di politiche monetarie non convenzionali). Neanche con le sfide a medio e lungo termine (il ruolo dell’Ue in un mondo globalizzato in cui il suo partner tradizionale, gli Stati Uniti, che molto si è speso nei primi anni del suo cammino, sembra allontanarsi da un continente che mostra segni di senescenza) .
Sono anni in cui l’Ue è una cornice di regole di base all’interno della quale si creano gruppi più piccoli e che dovrebbero essere più omogenei e dotati di più chiare finalità specifiche. Delle varie “cooperazioni rafforzate”, la più importante, e la più complessa, è l’unione monetaria, una “cooperazione rafforzata” in cui forse si è fatto un passo più lungo della gamba e ora si è alle prese con nodi di difficile soluzione. È anche quella più problematica perché è nata sotto l’impulso del crollo del Muro di Berlino e della preoccupazione principalmente francese della tenuta dell’accordo del Louvre franco-tedesco sui cambi (una cooperazione “rafforzatissima” all’interno della “cooperazione rafforzata” rappresentata dall’unione monetaria). È stata quindi istituita prima che ci fossero i presupposti per andare verso un’area valutaria ottimale.
Sono tensioni non solo contingenti e di breve periodo (come quelle sul mantenimento o meno del Quantitave easing a fronte di un ritorno dell’inflazione), ma anche strutturali. Ad esempio, un lavoro (di cui non si parla in Italia anche perché disponibile unicamente in versione preliminare su supporto magnetico) è uno studio quantitativo di Markus Ahlborn e Marcus Wortmann, della Georg-August Unversitaat di Gottigen “Output Gap Similarities in Europe: detecting country groups” (Somiglianze nell’output gap in Europa: individuare gruppi di Paesi analoghi). Nel lavoro la sincronizzazione dei cicli diventa il metro, uguale per tutti, per stimare l’output gap (il differenziale tra Pil potenziale e attuale). Applicando la metodologia statistica a 27 Paesi (i 28 dell’Ue meno Cipro, Malta e Lussemburgo, più Norvegia e Svizzera) e utilizzando i dati trimestrali del Pil dal primo trimestre 1996 al quarto trimestre 2015, lo studio identifica un gruppo centrale (core) di ciclo economico europeo, ossia di Paesi che si muovono alla stesso passo e che quindi costituiscono un’area omogenea.
Questi sono i Paesi strettamente collegati alla Germania come Danimarca, Svezia, Svizzera e il Regno Unito, il Benelux, nonché la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria (tre Stati che secondo l’analisi sarebbero pronti ad adottare l’euro). Il core avrebbe alcuni dei presupposti di un’area valutaria ottimale e potrebbe costituire un’unione monetaria, anche se alcuni dei suoi Stati non fanno parte dell’Ue. Secondo questa analisi, nel periodo 1996-2007, l’Italia era prossima al core, ma se ne è distaccata in misura significativa successivamente. Se non effettuerà riforme economiche drastiche se ne distanzierà ancora di più. Aumentando le proprie difficoltà in materia sia di debito e finanza pubblica, sia nel sociale (occupazione, diseguaglianze), proprio in una fase in cui l’unione monetaria è diventata il parafulmine di tutto il malcontento nei confronti dell’Ue, delle istituzioni e delle sue regole generali di base.
Per questa ragione avrei trovato più sensato tirare fuori dal cappello del Consiglio europeo, idee su come raddrizzare la più importante delle “cooperazioni rafforzate”, l’unione monetaria, senza che nessuno dei partecipanti si faccia troppo male. Oppure andare verso un disegno più vasto. Quale quello delineato da Roberto Caporale nel suo recente libro “Exeunt – La Brexit e la fine dell’Europa” (Rubettino, 2017): un’Europa in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva realizza un impianto adattivo con istituzioni centrali forti nel loro ruolo primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano uno spazio di mercato libero e aperto.