Mentre governanti, funzionari e regolatori europei si trovano finalmente a fare i conti con il reale impatto di una potenziale uscita della Grecia dall’Ue (ieri il nostro spread è arrivato al picco intraday di 159,6 punti base e anche Portogallo e Spagna hanno ballato), qualcosa di forse ancor più pericoloso sta silenziosamente accadendo a migliaia e migliaia di chilometri. I mercati emergenti stanno infatti continuando a pagare un duro scotto all’ipotesi di un aumento dei tassi da parte della Fed in settembre, tanto da aver portato l’Institute of International Finance (Iif) a pubblicare proprio ieri un report allarmante nel quale si dice chiaramente che questa asset class sta vivendo la peggior fuga di capitali da sette anni a questa parte.
Gli investitori hanno infatti ritirato qualcosa come 9,3 miliardi di dollari dagli emerging market funds nella sola settimana conclusasi l’11 giugno scorso, stando alla società di tracciatura dati Epfr, il massimo dal 2008, quando si toccò il culmine della crisi finanziaria globale. E la maggior parte di quel denaro sparito è concentrato in Cina, dai cui equity funds sono scomparsi qualcosa come 7,12 miliardi di dollari, mentre gli emerging market funds globali hanno patito per 829 milioni di dollari e i fondi latino-americani hanno perso 442 milioni di dollari.
A determinare questo esodo un insieme di fattori, tra cui un dollaro più forte, una valutazione degli assets di quei mercati ritenuti sovra-valutati e il rischio di un aumento dei rendimenti obbligazionari nei Paesi sviluppati: insomma, il tipico cocktail da avversione del rischio. E nonostante il resto dell’Asia (a parte l’Indonesia), pare più protetto da shock rispetto alla Cina, all’Iif fanno notare che il peggio non è affatto passato, visto che il meeting del Fomc della Fed in programma oggi e domani è visto come un market-mover dell’anno, non della settimana.
Da nove anni la Federal Reserve non alza infatti i tassi ma in compenso lo ha minacciato – più o meno direttamente – o fatto capire migliaia di volte, come ci mostra il grafico a fondo pagina: e se questa volta alzasse davvero, cosa succederebbe a quella linea nera, già abbastanza impazzita? Inoltre, per Morgan Stanley «la recente correzione dei prezzi nelle equities dei mercati emergenti non ci porta a una valutazione positiva delle stesse, visti anche gli scarsi risultati degli utili, la forza del dollaro, l’aumento degli spread nei mercati sviluppati e valutazioni nel complesso molto sovra-valutate che rimangono le preoccupazioni principali».
Nel mirino, oltre Pechino, Turchia, Brasile, Sudafrica, le cui valute sono molto vulnerabili alle oscillazioni al rialzo del dollaro e alcuni Paesi asiatici il cui costo del servizio del debito denominato in biglietti verdi potrebbe entrare in una spirale poco gestibile e auto-alimentante. E a complicare il quadro c’è il fatto che, al netto dei continui dati macro negativi che vengono pubblicati, alcuni indicatori parlano di una crescita economica Usa che sta prendendo vigore, di fatto offrendo un’altra sponda alla Fed per rompere gli indugi e alzare i tassi di un quarto di punto.
Il tracciatore del Pil di Morgan Stanley, infatti, ha visto la crescita nel secondo trimestre passare dall’1,5% al 2,7% la scorsa settimana, mentre anche il GDPNow della Fed di Atlanta nella sua ultima valutazione, quella dell’11 giugno, vedeva il dato del Pil dei secondi tre mesi dell’anno salito all’1,9% dall’1,1% del 3 giugno. Di più, l’indice per il sentiment dei consumatori dell’Università del Michigan in giugno è salito a 94.6 da 90.7, tracciando in positivo un aumento delle vendite al dettaglio nel mese di maggio. Insomma, la fabbrica dei dati “aggiustati” è in pieno fermento, anche se in effetti tre variabili potrebbero portare a un dato del Pil più robusto, visto che io del GDPNow tendo a fidarmi: le scorte di magazzino ancora in crescita record, l’industria aero-spaziale e bellica stranamente in fermento (chissà come mai, di fatto Obama sta solo sfidando alla Terza guerra mondiale Putin…) e le solite revisioni dei dati precedenti, la panacea di tutti i mali Usa.
Il problema è che fino a oggi sono stati i piccoli investitori a scappare dai mercati emergenti, mentre i grandi fondi pensioni e gli istituzionali sono ancora lì: ma cosa succederebbe se dopo il meeting di oggi e domani la percezione sui mercati fosse davvero quella di un aumento dei tassi? Cosa succederebbe se quei giganti cercassero la porta di uscita tutti insieme? Nel suo Global financial stability report di aprile, il Fmi ha reso noto che l’industria dell’asset management ha investimenti in atto per un controvalore di 76 triliardi di dollari, equivalenti al 100% del Pil mondiale. E questi fondi hanno enormemente aumentato le loro detenzioni di bond e titoli dei mercati emergenti, un qualcosa che per l’Istituto di Washington fa aumentare i timori per una “tempesta di liquidità” in caso la Fed agisca, poiché ci sarebbe una fuga in massa di quei soggetti.
E nonostante i reiterati appelli ad aumentare le loro difese e sgonfiare la bolla del credito prima che fosse tardi, quei Paesi hanno continuato sulla loro strada da rally, facendo aumentare i timori legati alla Fed e con essi dando benzina all’apprezzamento del dollaro: il quale, come conseguenza diretta, ha l’aumento dei costi del credito a livello globale, variabile che innesca un doppio shock sul sistema finanziario internazionale. Parliamo di una potenziale margin call da 9 triliardi di dollari su debito in biglietti verdi off-shore, quando solo quindici anni fa non si arrivava a 2 triliardi.
Stando a dati della Banca per i regolamenti internazionali, i mercati emergenti pesano per metà di quei 9 triliardi di debito in dollari, una somma senza precedenti dovuta a sette anni di liquidità a pioggia, tassi a zero e vari cicli di Qe occidentali. Soltanto il debito cinese denominato in dollari è quintuplicato dal 2008 a oggi, arrivando ad almeno 1,1 triliardi di dollari: insomma, un stock di debito sul quale quei Paesi dovranno fare roll-over in condizioni di mercato potenzialmente molto avverse. Senza dimenticare che oggi i mercati emergenti pesano per la metà del Pil globale, tre volte il livello di inizio anni Novanta: insomma, sono talmente grandi – e con debiti enormi con cui fare i conti – che una crisi di finanziamento indotta dalla Fed potrebbe squassare l’intero sistema. Tanto più che nella gran parte dei casi si tratta di Paesi già in crisi, con Brasile e Russia in contrazione e Cina che sta rallentando drasticamente.
Per Adam Slater dell’Oxford Economics, «i mercati emergenti hanno rapidamente cambiato ruolo, passando da essere il maggior supporto alla crescita commerciale del mondo a ostacolo notevole della stessa. Non vedo una prospettiva economica peggiore di questa, se non la crisi del biennio 2008-2009». Il problema sta nella mancanza di soluzioni: sia la crisi asiatica che il default russo del 1998 furono affrontate dal mondo sviluppato attraverso manovre di stimolo, ma oggi, dopo sei anni di tassi a zero e Qe in dimensioni pachidermiche negli Usa e ancora in corso in Giappone e Ue, cosa si può fare? Tanto più che proprio quelle manovre hanno portato i prezzi degli asset a sovra-valutazioni difficili da ridimensionare.
Ci sarà da soffrire e ci saranno perdite dolorose, perché temo che la Fed debba alzare i tassi proprio per generare quella turbolenza necessaria a spianare la strada a un Qe4 d’emergenza: meglio che a pagare il prezzo siano, almeno in un primo momento e al massimo dal vigore, mercati emergenti e Ue. Non vi pare infatti strano il timing che vede in perfetta sincronia il picco della fuga di capitali dai mercati emergenti e lo showdown greco indotto dall’irrigidimento del Fmi, di fatto gli Usa, dopo mesi in cui invece si trovava sempre una scusa per rimandare?
Riguardo ai dati taroccati dell’America di cui vi parlavo prima, vi lascio con due grafici, i quali ci dimostrano che come l’Impero romano nel pieno del crollo era dotato di legioni fantasma, l’economia Usa nell’era del Qe perenne è dotata di un Pil fantasma. Cosa ci mostra il primo grafico? Semplice, che tra il 1980 e il 2000, uno dei più grandi boom borsistici della storia finanziaria, 8 milioni di americani sono usciti dalla forza lavoro divenendo di fatto zombie. E non basta, perché tra il 2001 e oggi, altri 21 milioni di lavoratori sono entrati nella categoria dei morti viventi occupazionali. Vi pare una dinamica economica normale, a fronte di formale crescita? E il secondo grafico ci dice di peggio, forse, visto che il più grande mercato rialzista di sempre, quello iniziato nel 2009, non è riuscito ancora adesso a pareggiare il numero di lavoratori a tempo pieno che c’era nel 2007, ovvero il livello pre-crisi, questo nonostante una supposta ripresa economica e un incremento demografico. Anche questo, vi pare normale e giustificabile con una crescita economica reale? È solo finanza, niente di più e niente di meno. E sta per presentarci il conto.
P.S.: Ho deciso di non trattare il tema greco non per snobismo, solo perché era la notizia principale di tutti i grandi organi di informazione. L’ho fatto per due motivi: primo, si rischia di sottostimare quanto accade nei lontani – e poco coperti dall’informazione generalista – mercati emergenti e il cocktail che potrebbe determinarsi in caso di default di Atene. Secondo, quanto sta accadendo temo sia parte di una (rischiosa) strategia della Bce, concordata con il Fmi. Domani infatti si terrà la riunione dell’Eurotower nella quale si discuterà anche dei fondi di emergenza alle banche (Ela) e ho la netta sensazione che Mario Draghi abbia già dato ordine alla sua segretaria di ritrovare il comunicato stampa con cui si imponevano i controlli di capitale a Cipro nel 2013 e di sostituire Nicosia con Atene. Pensateci: prima le fughe di capitali erano limitate, poi di colpo sono aumentate in maniera esponenziale, un’emorragia senza precedenti in un Paese europeo ma la Bce non ha fatto nulla per fermarle, se non aumentare i fondi la alle banche elleniche per tamponare e mantenerle solvibili.
Ora, questo grafico ci mostra come ad oggi quei fondi Ela coprano il 64% di tutti i depositi bancari ellenici, gli stessi che Draghi potrebbe congelare da domani. Direte voi, rivolta del popolo contro la Bce! No, perché a Francoforte leggono i sondaggi e l’ultimo dice che per la prima volta dall’elezione di Tsipras, la maggioranza dei greci (50,2%) vuole che il governo accetti le condizioni dei creditori pur di evitare la bancarotta del Paese. Ecco l’opzione che Draghi, imponendo la ricetta cipriota, “offre” ai greci: mandare a casa Syriza e rivotare, spedendo al governo qualcuno di più malleabile. Questa è la vera democrazia. Cinicamente e pragmaticamente parlando, però, 10 e lode a Mario Draghi. È il mercato, bellezza!