Nell’ultima edizione di uno dei suoi testi maggiori, The Economics of a Free Society, il capostipite dell’economia sociale di mercato, il grande e dimenticato Wilhelm Roepke, attaccò una delle idee più dannose di Keynes.
Per Roepke, l’economista inglese e i suoi seguaci commettevano un errore clamoroso nel considerare il sistema economico come parte di un universo matematico, meccanico, in cui l’attività economica consisteva solo di aggregati quantificabili, come consumi e investimenti, invece che nel risultato di azioni svolte dalle persone. In questo modo, Keynes elimina l’umano dall’“azione umana” e riduce il sistema economico a una macchina e l’uomo diventa una mera unità sociale che reagisce semplicemente al variare delle condizioni in rapporto agli istinti economici.
Questa crisi nasce da una visione neokeynesiana dell’economia e della finanza: i mutui subprime, i derivati, il sistema di folle indebitamento delle famiglie americane si sono sviluppati nella cornice culturale di questa visione dell’economia. Quello che è certo è che non possiamo pensare che la soluzione definitiva della crisi la si possa ottenere seguendo questa impostazione.
Le stesse, massicce politiche neokeynesiane per fare fronte alla crisi non hanno sortito effetti significativi, come dimostra il dato sull’occupazione negli Stati Uniti. Non sono più regole e più sussidi pubblici a fare crescere l’economia, proprio perché sarebbero medicine della stessa natura della malattia. L’unica crescita possibile dell’economia sta solo nelle persone, nella loro capacità di rischio e di costruzione; in una parola, nel loro lavoro. D’altra parte, il Rapporto “Sussidiarietà e piccole e medie imprese” della Fondazione per la Sussidiarietà, pubblicato lo scorso anno nel pieno della crisi economica, dimostrava chiaramente che gli imprenditori italiani non chiedono sussidi, ma più libertà.
La politica, allora, deve avere il coraggio di ripartire da qui, dall’economia reale. Siamo il Paese con il più alto tasso di imprenditori del mondo, abbiamo una media superiore di tre volte a quella europea nel rapporto tra imprese e abitanti, ma siamo anche uno di quei paesi in cui è più difficile fare impresa.
La Banca mondiale, nel suo rapporto sulla libertà di impresa, Doing Business, colloca l’Italia al 78° posto; si tratta di un paradosso. Non è il caso di riprendere qui le cause di questa situazione, ma tutti ci ricordiamo come si parlava del nostro sistema fatto di una miriade di micro, piccole e medie imprese, definendolo con disprezzo l’“anomalia italiana”.
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Purtroppo, in alcuni ambienti intellettuali, si sta rifacendo avanti l’idea che il problema della nostra economia sia la piccola dimensione delle nostre imprese. E questo è l’errore più grave: possiamo sognare un sistema che non c’è, ma non sarà questo sogno a creare Pil e occupazione. Al contrario dobbiamo ripartire da quello che c’è, che non è un punto di debolezza, ma di forza. Gli ultimi dieci anni, dopo l’introduzione dell’euro e l’affermarsi della globalizzazione hanno visto i nostri piccoli e medi imprenditori puntare con decisione su qualità, innovazione e internazionalizzazione, non senza la capacità di fare rete tra loro; se in questi mesi le piccole imprese non hanno licenziato, è anche perché hanno capito che il segreto del loro successo sta in quel capitale umano che permette alle loro aziende di fare cose belle che il mondo ci invidia.
Ci sono allora tre cose che solo la politica può fare e che però deve fare subito, se vogliamo imboccare definitivamente la strada della ripresa, in attesa della necessaria riforma fiscale.
La prima è una rivoluzione culturale, passare dal sospetto alla fiducia verso chi fa impresa e, nello stesso tempo, improntare le politiche fiscali e industriali partendo dal principio “pensare innanzitutto al piccolo”, come prevede lo Small Business Act dell’Unione Europea. Sono questi i contenuti del disegno di legge sullo Statuto delle Imprese, che in autunno sarà approvato dal Parlamento.
La seconda è riprendere con decisione una battaglia in Europa per la tutela del Made in Italy. Non si tratta di una battaglia di retroguardia di stampo protezionistico; al contrario, significa porre all’Europa una sfida fondamentale, per fare comprendere a Bruxelles che la competitività del nostro continente non sta nell’eliminare le differenze o nel livellarle verso il basso, ma nell’esaltarle in una leale concorrenza.
La terza è intervenire perché Basilea 3 non sia semplicemente un sistema per mettere in sicurezza le banche, ma con l’effetto di ottenere una ulteriore restrizione del credito, che resta già ora uno dei problemi più gravi per gli imprenditori, in particolare per quelli che sono intenzionati a investire.
Sono tre azioni politiche che possono offrire un forte sostegno ai nostri imprenditori e costituire il vero e definitivo rilancio della nostra economia. Perché l’economia non è fatta di algoritmi. È fatta di carne, di sudore e… di cuore.