“Chi vorrà credere agli alleati? Gli aiuti che ci hanno promessi, come nelle condotte l’acqua, mancano. E poi nei vasti tuoi stati, Signore, a chi è passata la proprietà? Dove vai, un nuovo ricco tiene casa: lui vuole vivere indipendente e ci tocca vedere come giostra. Tanti diritti s’è dovuto cedere che non ci resta un diritto su niente. Anche ai partiti, come che si chiamino, non si può più dare fiducia, al giorno d’oggi: che protestino o che lodino, diventano, amore e odio, indifferenti. I Ghibellini come i Guelfi stanno nascosti a riposare. Ma chi darebbe un aiuto al vicino? Ha da pensare ciascuno per sé. Sono sbarrate le porte dell’oro; gettano tutti, raspano, ammassano. E vuote restano le nostre casse” (J.W. Goethe, Faust, introduzione e traduzione di Franco Fortini, Milano, Mondadori, 2009, pp. 445-447, versi 4831-4851).
L’ora della verità è giunta. Il nodo gordiano è stato tagliato dalla spada dei tecnici dei tecnici, ossia da dei personaggi in cerca d’autore. Come definire altrimenti Bondi, Giavazzi e Amato, chiamati da un governo di tecnici per svolgere un compito tecnico? Lasciamo perdere Amato, la cui configurazione idealtipica avrebbe affascinato i darwinisti (politico? Tecnico? Centauro? Camaleonte? Pontiere? Acquisitivo? Distributivo? Annichilente? Intelligente!). E veniamo a Giavazzi (semplicemente scomparso) e a Bondi, salvatore di imprese che non esistono più o che sono state divorate o che sono state devitalizzate, prodotto di Mediobanca che per decenni ha socializzato perdite e privatizzato profitti, e portato alla rovina oligopolistica l’Italia.
Questi metatecnici, figure alla Greimas e alla Barthes, hanno compiuto la solita marcetta trionfale che segna il mood mondiale del fare ciò di cui non c’è bisogno quando c’è la recessione: tagliare l’occupazione, diminuire i consumi, scoraggiare gli investimenti, far piombare l’umanità nella disperazione e nell’anomia. Il tutto infilato nel forno da carnefice dell’aumento delle tasse, affinché la pozione avvelenata venga cotta a puntino.
Tecnici e supertecnici tutti subalterni al mainstream accademico, a riprova che solo le idee cattive vincono nel mondo alla breve (ché nel lungo vincono quelle della santità e del lavoro). Eccoci allora alla spending review che alla breve farà sprofondare l’Italia dalla recessione alla depressione più profonda dopo il 1929. Certo, c’è anche qualcosa di buono. Anche il Maligno è sempre accompagnato dall’Angelo Salvatore. Ma si tratta di ben poco. Vediamolo: per le imprese l’aumento dell’aliquota Iva è rimandato al 1° luglio 2013, limitando il calo degli affari per l’aumento delle imposte; e poi il regime fiscale di favore per le società quotate di investimento immobiliare pare sarà adottato anche per quelle di cessione e di valorizzazione degli immobili pubblici, forse consentendo di meglio venderli (ammesso che si vorrà fare un giorno o l’altro il famoso fondo per cercare in questo modo – un modo che non ottunde la crescita – di diminuire il debito pubblico); e infine le imprese potranno recuperare l’importo dei crediti verso la Pubblica amministrazione attraverso un meccanismo di compensazione agevolante l’impresa.
Se guardiamo poi a ciò che interessa le famiglie e i cittadini si dice che le misure previste per la Pubblica amministrazione ne aumenteranno l’efficacia e l’efficienza. Spero che non sia una nuova riforma Bassanini. In questa luce l’unica misura veramente ottima risulta quella di estendere l’intervento della Consip che, come dimostra la sua storia recente, può diminuire le spese improduttive dei Ministeri e aumentarne preclaramente la trasparenza. E poi lo stato stanzia 90 milioni per il diritto allo studio e 130 milioni per i libri scolastici gratuiti. Meglio di nulla. Infine, migliaia di famiglie sperano che con i risparmi della spending review sia possibile estendere a 55.000 esodati la clausola di salvaguardia delle nuove pensioni.
A fronte di queste briciole sta l’immensa mole dei provvedimenti depressivi che sono veramente di una tale ignoranza, di una tale sprovvedutezza, e di una tale subalternità alla leggenda della morte di Keynes (mentre mai come oggi il dandy di Bloomsbury è quanto mai vivo e attuale) da rimanere spaventati e attoniti. Ma non ci si rende conto che lo sconto sui farmaci e la stretta sui beni e servizi sanitari ricadrà sulle imprese del settore come un boomerang e ne sconvolgerà i bilanci e forse ne decreterà la fine? Si pensi che si potranno chiedere i diritti di recesso ai contratti se le spese previste saranno sotto la linea di riferimento. Si pensi a che regressioni siamo giunti. Come ha ricordato Maurizio Sacconi su Il Sole 24 Ore del 7 luglio 2012, quello che si applicherà è tutto il contrario dei costi standard e quindi dei tagli non lineari, ma federalistici e selettivi che invece prima dell’arrivo degli unni tecnici si era prospettato di fare.
Per quanto riguarda poi i dipendenti pubblici, la riduzione delle piante organiche vorrà dire meno stipendi, meno consumi, mentre non si fa nulla contro le pensioni d’oro e gli sprechi agli alti livelli dirigenziali. Il tutto condito con sottili crudeltà che spingono a ridurre i consumi e in regime di ristrettezza finanziaria sprofondare nell’inerzia casalinga e nella disperazione quotidiana grazie all’obbligatorietà delle ferie. Altra crudeltà degna di una pièce di Jonesco è l’idea di ridurre delle spese nella Pa riducendo lo spazio di vita d’ufficio di ogni dipendente diminuendo i parametri di riferimento per metro quadro. Si vede che si pensa che stare allo stretto incentiva il risparmio…
Infine, l’ultima crudeltà che danneggia enormemente anche le imprese è la riduzione dei buoni pasto che non potranno superare il valore di 7 euro. Già molti dipendenti pubblici e privati risparmiavano sul costo del lunch per fare la spesa per la casa. Ora dovranno digiunare, con conseguente dimagrimento e conseguente omologazione fisica ai ridotti spazi di lavoro. Ribadisco inoltre ciò che ho già detto altre volte: che se si pensa di ridurre la spesa attraverso l’accorpamento o l’eliminazione delle province si sbaglia obiettivo di grosso, perché la gran parte dell’inefficienza è sita nelle Regioni, nuovi e spaventosi enti centralistici e neostatalistici. Com’è noto fa eccezione per virtuosità, efficacia ed efficienza, la Regione Lombardia, che potrebbe essere presa a esempio sia per i costi standard, sia per la trasparenza. Ma questa non è l’opinione di ciò che rimane dell’establishment italiano come mostrano i suoi giornali quotidiani e di parte della magistratura.
In definitiva la spending review non solo è pura crudeltà sociale, ma è anche inefficiente e soprattutto stupidamente depressiva. Gli unici recuperi di efficienza attraverso tagli della spesa necessari sono quelli diretti ad aumentare la total factory productivity, ossia la produttività generale del sistema Paese, così alimentando la crescita. Ma questo significa, miei cari tecnici e metatecnici, non solo tagliare ma anche investire: infrastrutture. Tagli selettivi e non lineari. Riduzione delle tasse e non loro aumento. Incentivi agli investimenti privati e pubblici.
Ma far questo vuol dire non credere più nella favola bella degli economisti che sbagliano, e che racconta che la crescita viene dall’austerità. È invece tutto il contrario. Ma anche in questo caso bisognerebbe unire fede e ragione, ossia amare il prossimo e leggere i libri giusti, anziché quelli troppo zeppi di formule matematiche, e scritti solo in inglese.