Mentre lo scenario geopolitico del mondo viene ridisegnato, l’Unione Europea — tra Brexit e Trump — viene destabilizzata e l’Italia è aggredita sul piano economico e finanziario, la nostra scena politica ha ben altro a cui pensare: quando votare.
Che Matteo Renzi sia preoccupato di votare prima possibile è abbastanza comprensibile. Innanzitutto l’ex premier deve evitare il congresso del partito prima del voto. Il congresso, anche se vincente, obbligherebbe comunque il segretario del Pd a vedere i mass media italiani puntati per giorni su un dibattito imperniato sulla sconfitta referendaria e sulla negoziazione interna per essere rieletto. Più passa il tempo e più si apre lo spazio anche nel Paese a una distanza critica verso un’esperienza di governo debole su tutti i fronti, dalla riforma costituzionale a quella della pubblica amministrazione, dalla legge elettorale alla “buona scuola”. Di tre anni rimane in piedi solo una parte del Jobs Act e la legge sulle unioni gay. Per il resto una serie di leggi di serie B. I problemi di fondo sono rimasti quelli di tre anni fa e in parte aggravati: dal debito pubblico ai rapporti con Bruxelles. Sulla spesa pubblica Palazzo Chigi ha messo alla porta tutti coloro che hanno proposto tagli: da Cottarelli a Perotti. Ancora peggio nei rapporti con Bruxelles. Mai l’Italia è stata così isolata nell’Unione europea e senza nemmeno una voce in seno alla Commissione europea. Investire il successo delle europee del 2014 sulla Mogherini come Alto commissario è stato solo l’inizio di una catena di superficialità e di incapacità di tessere dialogo e alleanze. Oggi siamo messi sul banco degli accusati persino da chi in partenza ci era più vicino e cioè il commissario socialista francese Moscovici.
E’ così che siamo al punto più debole del ritorno di Renzi a Palazzo Chigi. Per fare che cosa?
Anche chi lo sostiene, come Michele Salvati, ha esortato Renzi a mettere a fuoco una nuova agenda di riforme. Matteo Renzi infatti sembra aver smarrito la ragione per cui aveva suscitato consenso e speranza e cioè l’essere l’uomo delle riforme necessarie al Paese. Dalle riforme è passato ai bonus. Ostentare superiorità di fronte ai problemi non significa risolverli.
Oggi ci troviamo — dopo i mille giorni — in sostanza al punto di partenza se non peggio: assetto costituzional-istituzionale invariato, ritorno al proporzionale con più probabile ingovernabilità, i partiti anti-sistema (Grillo-Salvini-Meloni) ben oltre il 45 per cento, il fiato di Bruxelles sul collo, disoccupazione giovanile al massimo, le frontiere chiuse alle spalle sul tema dell’immigrazione, i capitali stranieri all’assalto di quel che resta di ancora competitivo sul piano imprenditoriale e finanziario.
La risposta di Renzi? Renzi più che un leader è una star: nessuna valutazione autocritica e nessun programma a medio termine. Solo grinta e navigazione a vista. E’ vero che all’indomani del 4 dicembre — nella direzione del Pd — aveva ammesso di aver “straperso”, ma già dopo due giorni — all’assemblea dei segretari provinciali e regionali — si era vantato di aver stravinto, che il 40 per cento di Sì al referendum era “tutto suo” e sabato scorso a Rimini, al raduno dei sindaci Pd, ha omesso tutte le sconfitte elettorali — prima nelle regionali, poi nelle comunali e infine nel referendum — e ha aperto la campagna elettorale nel segno del 40 per cento delle europee 2014 e del referendum 2016 e quindi indicando il traguardo della maggioranza assoluta delle Camere a portata di mano. Analisi critica e dialettica interna non rientrano nell’orizzonte del segretario fiorentino, ma i conti con la realtà sono inevitabili soprattutto quando non si è più a Palazzo Chigi e le chiavi della legislatura sono in mano al Quirinale.
Che ormai il Parlamento dei transfughi sia al capolinea è indubbio, ma è anche necessaria una nuova legge elettorale. Renzi in questo ultimo anno non è stato un argine all’antipolitica, ma in vista del referendum l’ha cavalcata con esiti rovinosi. Con il rischio che anti-euro e anti-tutto siano vincenti sia, prima, con il ballottaggio sia, ora, con il proporzionale, il gioco d’azzardo renziano appassiona solo i suoi fans.
Dal Quirinale è venuto il via libera al voto anche in giugno, ma con nuova legge elettorale. Le voci che danno per scontata la scissione del Pd capitanata da D’Alema e Bersani sono esagerate. Nel Pd, sia nella maggioranza sia nella minoranza, si moltiplicano i segnali di riflessione e da Bersani e Speranza al ministro della giustizia Orlando fino a esponenti renziani l’indicazione di Mattarella sta prendendo quota e sembra sempre più una strada obbligata.