Ammetto, a dispetto delle apparenze, di essere un inguaribile ottimista. Penso ancora, infatti, che sia possibile far ragionare Umberto Bossi e farlo comportare e agire come un politico responsabile. E così è stato, a quanto pare. Al netto del realismo, “l’amico” – come lo definisce lui – Giulio Tremonti pare sia riuscito, tra un sigaro toscano e una Coca-Cola, a spiegargli il significato della parola cds, intraducibile in lumbard ma destinata a pesare molto anche sui destini dell’amata Padania del senatur.
A furia di parlare ogni piè sospinto di elezioni anticipate, di Silvio Berlusconi che tentenna, di Pier Ferdinando Casini che sarebbe «uno str…», il credit default swap sul debito sovrano italiano a 5 anni è schizzato a 214,5 punti base da 181,5 della scorsa settimana, 33 punti base nell’arco di quattro giorni (non contando, infatti, sabato e domenica) e a soli 23 punti base di differenza dalla tanto vituperata e pressoché fallita Spagna: martedì era sceso a quota 199 (-2,84%) grazie al fatto che il nostro paese non fosse citato nell’ultimo outlook di Moody’s sui rischi derivanti dalle politiche di austerity in Eurolandia ma l’altro ieri, in un solo balzo, ha guadagnato l’8,01%.
Certo, come ricorda Francesco Confuorti di Financial Advantage, «attualmente il mercato dei cds ormai è espansivo e in mano al panico da copertura di rischio rispetto alle minacce sul debito e quindi avvezzo a prezzature pressoché speculative», ma ciò non toglie, come non ci stancheremo mai di ricordare, che nessuno è così idiota da scommettere contro un’entità finanziaria, economica o politica sana o, come in questo caso, assicurarsi contro il rischio di default della stessa.
Se uno ha paura, non può sempre e soltanto essere panico irrazionale o speculazione: questo paese ha un debito pubblico spaventoso da ripagare a caro prezzo da qui al 2012 e naviga di fatto a vista senza una guida politica chiara e una maggioranza coesa. Peccato, però, che l’aumento del valore dei cds non sia solo un indicatore, un termometro ma anche il metro di misura dei rendimenti che ci troveremo a pagare per collocare le nostre obbligazioni, ovvero per vendere il nostro debito di fatto creandone di nuovo.
Un circolo vizioso. E mortale, potenzialmente. Tutto bene, quindi, dopo il vertice di Villa Campari? Nemmeno per sogno, visto che ieri i cds italiani sul debito sovrano a 5 anni sono saliti ancora raggiungendo quota 224 punti base, un aumento del 4,43% in un giorno. Amici miei, la situazione europea sta precipitando e lo testimonia il fatto che ieri siano salite le prezzature di tutti cds del cosiddetto Club Med più l’Irlanda: Portogallo 315 punti base, +6,56%; Irlanda 323 punti base, +3,96%; Grecia 920 punti base, +2,68% e Spagna 243 punti base, +2,14%.
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Per quanto Ue e Fmi si sforzino di spacciare per verità delle poco divertenti barzellette, infatti, la questione greca non solo non migliora ma cade sempre più nel baratro del default obbligato, giorno dopo giorno. Le banche elleniche, infatti, sono in questi giorni sotto pesanti pressioni politiche (tanto per usare un eufemismo) affinché diano vita a un sistema di fusione tra loro visto che, con ogni probabilità (gergo politichese per dire con altre parole “certamente”), i profitti del secondo trimestre subiranno un crollo strutturale a causa del rapido deterioramento della situazione dei prestiti e della qualità degli assets nel paese.
La National Bank of Greece SA, EFG Eurobank Ergasis SA, Alpha Bank SA e Pireus Bank SA, che renderanno noti i risultati del secondo trimestre la prossima settimana, sono state richiamate all’ordine e spronate a pensare a una politica di fusione dal ministro delle Finanze greco in persona, George Papaconstantinou e dal governatore della Banca centrale greca, George Provopoulos: difficile dar loro torto, visto che stando agli analisti il crollo dei profitti si attesterà attorno al 60%.
Quindi, merger obbligato, la stessa strada imposta dal governo spagnolo alle cajas, poi rivelatasi sostanzialmente fallimentare, visti anche i risultati ottenuti da quella farsa istituzionale degli stress tests. La Pireus Bank SA, il mese scorso si è offerta di comprare le holding statali della Agricoltural Bank of Greece SA, l’unica banca a fallire del tutto i già citati stress tests europei e Hellenic Postbank. Le politiche di fusione, nei fatti, servirebbero a tagliare i costi, rafforzare i bilanci, garantire un migliore accesso al mercato dei capitali e maggiori opportunità di capitalizzazione nel momento in cui saranno costretti ad ammette ai mercati le perdite sui prestiti, l’ammontare dei prestiti non-performing e l’outflow di depositi.
Per Pawel Uszko di Macquarie Research a Londra, «nonostante il consolidamento non risolva i problemi di liquidità, “debiti cattivi” e problemi sovrani delle banche greche, potrebbe però ridurre la competizione rispetto ai depositi e gestire in maniera migliore le politiche di contenimento dei costi: in tale senso, quindi, il consolidamento sarebbe benefico». National bank, la più grande banca del paese per volume di prestiti, ha guadagnato il 16% alla fine di giugno proprio grazie ai rumors riguardanti politiche di fusione e alla luce verde ottenuta dagli stress tests: Eurobank ha guadagnato il 44%, mentre Apha e Pireus sono cresciute, rispettivamente, del 37% e del 26%.
La scelta del mergering interno, d’altronde, è anche imposta dalle condizioni di mercato. Nessuna banca straniera, infatti, ha in mente di comprare una controparte greca, proprio per i rischi di incerto backdrop sovrano e pressioni sui profitti. Il governo greco intende ridurre il deficit di budget dal 13,6% del Pil dello scorso anno, il secondo peggior dato dopo quello irlandese, fino al limite imposto dall’Ue del 3% entro il 2014: ancora una volta, wishful thinking, a meno che non siano pronti a fronteggiare una guerra civile.
Il problema è che una parte del debito greco, deterioratosi con la crisi, è detenuto proprio dalle banche elleniche e se si incappa in difficoltà nel collocamento del debito sul mercato non restano che due strade: o si va a patire un haircut del 20-30 per cento e una spalmatura sulla maturity oppure il default. E quando National bank parla di introiti netti per il secondo trimestre crollati del 72% a 109,7 milioni di rispetto all’anno precedente c’è poco da stare allegri.
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Ma anche i profitti di EFG Eurobank piangono con un bel -65% a 30,7 milioni di euro, mentre il net income di Alpha vedrà un segno meno pari al 74% a quota 33,3 milioni di euro. Pireus, addirittura, conoscerà una perdita di 17,6 milioni, comparata a un profitto di 77 milioni dello scorso anno. E questo, come ricordavamo lunedì scorso, a fronte di richieste di prestiti record alla Bce nel mese di giugno.
Per Alexander Kyrtsis, analista alla UBS AG di Londra, «la dipendenza delle banche dalla Bce e il deterioramento della qualità degli assets invocano la strada maestra delle fusioni e delle iniezioni di capitale. Questo servirà a creare istituzioni finanziarie più grandi e con bilanci più robusti: queste entità di fatto avranno maggiore facilità nell’ingresso ai mercati del capitale, creando sinergie e potranno competere nell’Europa centrale e del Sud». I prestiti non performing sono saliti all’8,2% del totale in Grecia nel primo trimestre di quest’anno, contro il 7,7% della fine dello scorso anno, stando a calcoli di Hsbc Holddings Plc.
Non è un caso che Tania Gold, analista di UniCredit a Londra, ha sbattuto nella lista “sell” le quattro principali banche greche proprio a causa delle pressioni sul margine di interesse netto, le crescenti perdite sui prestiti e l’outflow di depositi sul mercato interno. «Prevediamo – scrive la Gold – che il costo di rischio per ognuna di queste banche continuerà a salire e che l’economia greca resterà sotto pressione», dato testimoniato dalla contrazione del Pil nel secondo trimestre. Tra il 26 e il 31 agosto Piraeus, National Bank, Eurobank e Alpha renderanno note le figure e le cifre effettive per il secondo trimestre: occhio alla danza macabra dei cds greci, già in orbita.
Il problema, come sapete, è che se la pur piccola Grecia fallisce insieme alle sue banche, la mazzata ricadrà sulle banche tedesche e francesi pesantemente esposte nella penisola ellenica: allora sì che saranno guai.
È per questo che Parigi, Berlino, Bruxelles e Bce hanno deciso di tramutare l’Irlanda nella vittima sacrificale della crisi globale, salvando gli istituti tedeschi e francesi che non hanno esposizione presso la “tigre celtica” e, contemporaneamente, godendosi il piatto freddo della vendetta per il “no” al Trattato di Lisbona. Come spiegare, infatti, l’assurdità – anzi, l’insulto – del fatto che per prendere a prestito denaro, Dublino deve pagare un tasso del 5,48%, che diventa quasi 8% in termini reali una volta calcolato all’interno il dato deflattivo e la Grecia, invece, se la cava pagando il 5% sul mercato e un tasso ancora più basso quando batte cassa al Fondo Monetario Internazionale?
Di più, al netto di tutto questo l’Irlanda ha anche la spesa accessoria, come membro Ue, di dover sovvenzionare la Grecia attraverso il piano di salvataggio Ue-Fmi. Non a caso, quindi, si fanno scorpacciate di cds e, zitti zitti, i tedeschi stanno studiando una scappatoia legislativa alla legge che vieta i salvataggi bancari, visto che le Landesbank stanno andando letteralmente a picco. Il piano sarebbe basato sullo scorporo degli assets bancari al fine di porre sotto tutela, in una logica da bad bank, senza iniettare denaro pubblico per salvare le banche regionali definite “strategiche” e quindi meritevoli di una deroga alla legislazione vigente sui bail-out.
Non solo i Pigs o Club Med che dir si voglia stanno affrontando l’acuirsi della crisi, anche la Germania dall’export record e della crescita al 2,2% che ha visto i genialoni di Bruxelles e Francoforte rivedere la stima di crescita dell’eurozona di un punto percentuale, quando questa crescita di fatto non c’è. C’è l’inflazione, in compenso, nonostante si continui a evocare il fantasma della deflazione: a Milano i prezzi hanno visto un aumento del 3% e una politica di tassi a zero come quella che la Bce ha sposato e continua ad attuare potrebbe portare una vera fiammata in autunno e inverno, con l’aggravio delle spese per il riscaldamento e quelle di derivazione agflattiva sui beni alimentari legati alla crisi del grano russa.
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I rendimenti dei bund tedeschi sono ai minimi storici, segnale che lo spread con le obbligazioni degli altri Stati membri sta allargandosi a dismisura: e per chi, come noi, ha gravi problemi di debito, sono davvero brutte nuove. Non a caso, poi, sono ripartiti in grande stile i cross ribassisti contro l’euro, con scommesse miliardarie sul crollo della divisa comune a 1,21 contro il dollaro contro il rally delle ultime settimane che aveva visto molti hedge funds chiudere le posizioni short e scappare con la coda tra le gambe.
Due volte lo stesso errore è davvero difficile che lo commettano, quindi questa volta la caduta verso il primo punto di resistenza a 1,19 è più che probabile. Il perché è presto detto da altri due dati, l’uno proveniente dalla Spagna e l’altro dall’Irlanda, due dei membri dei vituperati e traballanti “Pigs”. La Spagna, infatti, sta mettendo tutte le uova rimastegli (poche, a dire il vero) in un solo canestro. Il fondo pensioni nazionale – il Fondo de Reserva con un portafoglio da 64 miliardi di euro – sta comprando a ritmo vertiginoso debito sovrano del paese, almeno stando a quanto pubblicato dal quotidiano finanziario Cinco Dias. Gli investimenti in tal senso sono aumentati dal 50% del 2007 al 76% dello scorso anno e il ministro della Sicurezza sociale, Octavio Granado, ha dichiarato placidamente che saliranno ulteriormente al 90% entro la fine di quest’anno (vedi il grafico qui sotto).
Da un’analisi dei dati, si evince che il Fondo non sta soltanto investendo entrate fresche in bond spagnoli, ma sta fuggendo da obbligazioni olandesi, francesi e tedesche per acquistare debito spagnolo. In parole povere, i risparmiatori spagnoli stanno di fatto diventando – volenti o nolenti – i principali acquirenti delle aste del Tesoro iberico, ecco quindi svelato il miracolo dell’appetito fuori dal comune degli investitori per il debito di Josè Zapatero: se lo sta comprando da solo. La Bank of New York Mellon ha reso noto che il suo data iFlow sui bonds spiega in maniera chiara che la richiesta straniera verso il debito spagnolo è «prosciugata» dopo la ripresa dello scorso luglio, circostanza a cui va associata una contemporanea vendita netta di bonds francesi.
Per il ministro Granado gli acquisti sono unicamente indirizzati al raccoglimento di rendimenti più alti, visto che ieri il decennale spagnolo veniva scambiato a 173 punti base sul bund tedesco: peccato che sempre ieri lo spread dei decennali greci sul benchmark tedesco fosse di 853 punti base, quindi se è il rendimento che si cerca perché non lanciarsi sulle obbligazioni elleniche? Che fare allora? Dichiarare default tecnico e mettersi nella mani del Fmi? Lasciare l’eurozona? Un po’ tardino, visto che come dice Brian Coulton di Fitch Ratings, «abbandonare oggi l’eurozona è come cercare di togliere lo zucchero dal proprio caffé dopo che si è già mescolato». La ricetta, per il Club Med, è una sola: sperare che la Germania accetti di sopportare qualche anno di alta inflazione per permettere ai periferici del Sud di uscire dalla trappola del debito/deflazione.
Pensate lo faranno? Io no. In compenso, tanto per capire la globalità della crisi, il Giappone sta facendo la stessa cosa della Spagna, anche perché con un rapporto debito/Pil del 225% quest’anno (dato del Fmi) c’è poco altro da fare. La mossa di Madrid potrebbe anche funzionare, a patto però che la Germania, come già detto, accetti un’inflazione al 5% e che la Spagna riesca a resistere all’interno dell’eurozona, altrimenti bye bye ai risparmi dei lavoratori spagnoli: siamo alla disperazione, pura e semplice.
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La seconda, brutta euronotizia arriva come anticipato dall’Irlanda, con S&P che ha operato un downgrade del rating di Dublino per l’eccessiva spesa nel salvataggio delle proprie banche. Lo spread tra bonds decennali di Dublino e bund resta a 327 punti base, mentre il cds sul debito sovrano a 5 anni, come già ricordato, è salito a 322,6, un bel +3,96% sulla giornata. Il Titanic comincia a inclinarsi sempre di più, ma a Parigi e Berlino va benissimo così, l’importante è salvare la disfunzionale Grecia e le sue banche così ricche di euro nobili in assets, l’Irlanda vada pure alla malora.
Per una volta, guarda caso, nessuno – Dublino a parte – ha attaccato il tempismo sospetto e la cattiva analisi di Standard&Poor’s. Anzi. In compenso, proprio ieri, l’Irlanda ha collocato 600 milioni di euro di bond di debito sovrano, 200 milioni di titoli a 6 mesi con un rendimento del 2% e richieste per 4,1 volte maggiori all’offerta e 400 milioni di titoli di Stato a 8 mesi collocati con un rendimento del 2,248% e una domanda che eccedeva di dieci volte l’offerta: con rendimenti così, seppur in flessione rispetto le due aste precedenti, c’è poco da stupirsi. Stessa musica per i 9,5 miliardi di Bot italiani a 6 mesi e ai 4 miliardi di Ctz no-coupon biennali emessi ieri dal Tesoro e polverizzati: per i Ctz, con un rendimento dell’1,721%, la richiesta eccedeva i 6 miliardi e 300 milioni, mentre per i Bot, con rendimento 0,958%, le offerte ricevute erano pari a 14,892 miliardi di euro.
Insomma, i mercati hanno appetito di obbligazioni sovrane. E questo, spesso, non è un buon segnale. Soprattutto se letto attraverso la lente d’ingrandimento di un report commissionato da Morgan Stanley al suo analista Arnault Mares e non pubblicato, secondo cui «i governi in Europa e altrove potrebbero usare metodi creativi per imporre perdite ai loro creditori al fine di evitare un diretto default sul debito sovrano. L’insolvenza cessa quindi di essere una mera possibilità e diviene plausibile. La crisi, infatti, non è limitata alla zona periferica dell’Europa, è una crisi globale ed è ben lontana dell’essere terminata. Noi ragioniamo su una prospettiva di alto livello riguardo i balance sheets dei governi e concludiamo che i detentori di debito devono prepararsi ad entrare in un era di “oppressione finanziaria”».
Per Mares, «l’oppressione finanziaria da parte di paesi come la Grecia potrebbe concretizzarsi in vari modi, come ripagare il debito con moneta svalutata, tassazione oppure incentivi regolatori per le istituzioni affinché comprino debito governativo a prezzi fuori mercato. L’oppressione finanziaria ha già preso forma in passato come alternative al default per paesi che erano generalmente considerati con record di debito sovrano immacolato».
Un esempio lampante è quello che include l’amministrazione del presidente Usa Franklin D. Roosevelt e la sua scelta di revocare le clausole auree nei contratti sui bonds nel 1934 e la decisione del ministro delle Finanze britannico, Hugh Dalton, che tra il 1946 e il 1947 emise debito perpetuo al tasso di rendimento artificialmente basso del 2,5%. Per Mares, quindi, «preso atto di questo background, sembra pericolosamente ottimistico aspettarsi che i detentori di debito sovrano possa essere continuamente e pienamente protetti dal condividere la perdita di ricchezza e reddito che ha colpito altri gruppi. Il default sovrano diretto in molte economie avanzate rimane uno sviluppo altamente improbabile, dal nostro punto di vista. Ma gli attuali rendimenti e i tassi di break-even inflazionistici offrono ben poca protezione contro la credibile minaccia di oppressione finanziaria, in qualsiasi forma questa possa palesarmi». La vendetta del Leviatano contro il mercato potrebbe essere alle porte. Dio ce ne scampi.
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P.S. Ma alla situazione appena descritta, va unita un’altra variabile ad alto tasso di impazzimento possibile. Nelle scorse settimane abbiamo parlato della decisione del governo ungherese di dire “no” alle richieste di misure di austerity del Fmi e della volontà di proseguire attraverso l’emissione di bond sui mercati e la tassazione di banche e assicurazioni per superare la crisi dovuta alla bolla immobiliare e ai mutui denominati in franchi svizzeri che stanno letteralmente rovinando i contraenti a causa del forte apprezzamento della moneta elvetica sul fiorino ungherese.
Bene, ieri anche Budapest ha emesso 50 miliardi di fiorini (pari a 178 milioni di dollari) in tre aste: bond a 3 anni per 20 miliardi con richieste per 28,85 e rendimento medio del 6,88%; bond a 5 anni per 15 miliardi di fiorni e richieste per 31 con rendimento medio del 7% e, infine, bond decennale per 15 miliardi di fiorini e richieste per 28 miliardi con un rendimento medio del 7,05%. Quei rendimenti, vanno ripagati: non si fa cassa riempiendo solo le aste. Ed essendo il problema ungherese basato sulla denominazione al 95% in franchi svizzeri dei mutui immobiliari, è facile che Budapest quegli interessi li pagherà davvero con moneta ultra-svalutata. Loro, con lo stato di “pre-ins”, possono ancora.