C’è troppa calma, forse solo apparente, in piazzetta Cuccia a Milano, la sede della vecchia Mediobanca. Sul tavolo del presidente del Consiglio di sorveglianza, Cesare Geronzi, e su quello del presidente del Consiglio di gestione, Renato Pagliaro, si accumulano i dossier delle “partite aperte”, di quelle scadenze da affrontare che si aspettano da mesi. Dai tempi di Enrico Cuccia e di Vincenzo Maranghi, Mediobanca è mutata per lo stile e per il “peso” indiscusso che aveva nella finanza italiana e nello stesso sviluppo del capitalismo italiano. Era il “potere forte” per eccellenza, il “salotto buono” dei cosiddetti “intoccabili” e “indispensabili”. In questi anni la situazione è mutata, ma negli ultimi due non c’è dubbio che Mediobanca stia ritornando a essere un “baricentro” dei grandi affari e una stanza di compensazione delle partite decisive per almeno tre grandi realtà: Generali, Telecom Italia, Rcs-Corriere della Sera.
Inoltre, Mediobanca scopre sempre di più una vocazione europea e internazionale. Vuole essere una grande merchant bank che intende inserirsi a pieno titolo sul mercato globale. Il problema è che si è consolidato un nuovo gruppo di riferimento all’interno della banca fondata da Cuccia. Si è limitato di fatto il potere delle vecchie e trasformate “bin” del Gruppo A, si è spezzettato il Gruppo B, quello dei soci industriali, si è rafforzato il Gruppo C, quello dei soci esteri guidati dal francese Vincent Bollorè e dai suoi partners, come il franco-tunisino Tarak Ben Ammar e lo spagnolo del Santander Emilio Botin. Se si ragionasse di un “grande socio di riferimento”, oggi si dovrebbe pensare che il quasi 12% (ma sarà veramente così?) del Gruppo C riesce a saldare una maggioranza che sfiora il 25%, nominale, insieme al gruppo Ligresti, alla Fininvest e a Mediolanum, con la cerniera della presidenza Geronzi. C’è pure il rischio, o l’opportunità, dipende dai punti di vista, che il “patto di sindacato” che scade nel 2009 non venga neppure rinnovato (dichiarazioni ripetute di Tarak Ben Ammar dell’anno scorso) e alla fine si vada tutti in ordine sparso, con il gruppo francese che però avrebbe inevitabilmente la parola decisiva su tutte le questioni.
Mediobanca si è rimessa in sesto, come si usa dire, proprio nei venti mesi del Governo di centrosinistra, difendendo le sue posizioni da concorrenti più che agguerriti sia in Generali (dove Mediobanca è l’azionista di riferimento) sia in Telecom (dove è subito intervenuta come playmaker insieme a Generali nella costituzione di Telco), sia in Rcs, dove non molla una presa pluridecennale. E non si è affatto chiusa di fronte alla nuova realtà delle aziende italiane. Il primo studio ben elaborato sulla media azienda italiana, sul quarto capitalismo, fu ordinato da Enrico Cuccia, in prima persona, a Fulvio Coltorti, capo dell’Ufficio Studi alla fine degli anni Settanta. Oggi Coltorti, insieme a Unioncamere, ha tracciato la mappa di queste aziende, concentrate soprattutto sull’asse Torino-Milano-Venezia, che è vincente sul mercato globale e che hanno profondamente trasformato il capitalismo italiano nella sua fase post-fordista. È probabile che lo studio di Mediobanca non sia solo un’analisi interessante per gli storici dell’industria e gli osservatori economici, ma serva alla stessa merchant bank milanese per differenziare i suoi prodotti e i suoi servizi.
Pensiamo quindi a una Mediobanca diversa da quella di un tempo, anche se sempre decisiva sullo scacchiere più importante dei grandi business. È sicuro che l’asse più solido corre tra Milano e Trieste, tra Mediobanca e Generali, il Leone triestino che è definito la “cassaforte” del risparmio italiano. A Trieste c’è chi festeggia ancora l’anniversario del compleanno dell’imperatore Francesco Giuseppe, ma anche chi continua a onorare “l’imperatore delle assicurazioni”, l’ottuagenario Antoine Bernheim, scuola Lazard, amico intimo del presidente Nicolas Sarkozy, scaltro e prudente finanziere “senza patria”. C’è chi prevede addirittura una fusione tra Generali e Mediobanca, così come chi teme che alla fine il Leone triestino finirà nella braccia della grande compagnia francese Axa. Ma sono solo ipotesi. In realtà, lo si voglia o no, Generali, sotto la prudente guida di Bernheim, esce rafforzata dallo tsunami della crisi finanziaria dei mutui subprime e quindi può replicare all’hedge fund Algebris che la redditività del suo titolo sarà meno alta di quella di Axa e Allianz, ma più sicura, basata su una società che non rischia e sa patrimonializzare molto bene. Alla fine, nonostante i fondi attivisti e le incursioni di qualche investitore, sabato Bernheim dovrebbe essere riconfermato fino al 2010 e stabilire i progetti di espansione di Generali in sintonia con i piani di Mediobanca.
Poi c’è la partita di Telecom Italia, con la necessità di un rilancio decisivo e senza le pastoie politiche che il Governo Prodi ha cercato di imporre al colosso delle telecomunicazioni italiane, in alcuni casi in modo maldestro. Il nuovo management societario è frutto di un bilanciamento politico superato dal voto del 13 e 14 aprile, ma non per questo potrebbe rivelarsi non funzionante anche in futuro. Tuttavia, il peso della spagnola Telefonica e la presenza in consiglio di amministrazione di Tarak Ben Ammar, fanno comprendere che bisognerà rivedere il testo della stessa legge Gasparri e probabilmente si svilupperanno nuove sinergie. Il primo a rompere le consegne del silenzio è stato un nuovo investitore intelligente come Marco Fossati, che ha parlato addirittura di sinergie con Mediaset e con Rupert Murdoch. Fossati non ha nulla che fare con Mediobanca, ma Fininvest sta ormai nel “patto di sindacato” di piazzetta Cuccia e Tarak ha ottimi rapporti con Murdoch. Non è azzardato fare alcune deduzioni.
Infine Rcs, la partita del Corriere della Sera, con un “patto di sindacato” che Tarak Ben Ammar, visto l’affollamento, ha definito una sorta di “club di tennis”.
Alla fine, durante questo stesso anno, qualche cosa muterà e non solo dove tutti pensano, cioè la “stanza di Albertini”, anche perché Mediobanca cercherà di stabilire nuovi assetti.
Alla fine, quale conclusione si può trarre da questa ricognizione? Che Mediobanca è ritornata al “centro” con una “veste nuova”. A chi questa realtà non piace, si può indicare solamente l’incapacità di sostituirla nel panorama finanziario italiano.