Matteo Renzi ha vinto la prima prova di questo anno che si è aperto con il referendum sulle trivelle e si chiude con il referendum sulla riforma della Costituzione. Ha perso l’ammucchiata delle opposizioni, ha perso la demagogia di alcuni capi popolo meridionali, ha perso la sinistra Pd che cercava una rivalsa su un terreno scivoloso e su un’occasione chiaramente strumentale. Michele Emiliano si sarebbe accontentato di una partecipazione del 40%, ma non ha avuto il buon gusto di riconoscere la propria secca sconfitta. Anzi, in televisione ha avuto il coraggio di sostenere che il Sì ha vinto comunque. La lealtà evidentemente non s’addice alla politica italiana e gli ex magistrati non si distinguono dai comuni politicanti. Ma la lezione che è arrivata dal voto andrebbe colta superando la querula polemica e le liti tra comari.
Renzi ha detto che è prevalsa la concretezza ed è vero. Gli italiani hanno reagito facendo appello al buon senso e alla valutazione razionale dei costi e dei benefici. Del resto, chi avesse analizzato senza paraocchi ideologici né pregiudizi di parte la crisi economica e i suoi effetti sociali, avrebbe capito da tempo lo stato d’animo del Paese.
Inutile è stato il tentativo di cavalcare le inchieste giudiziarie che ruotano attorno al petrolio in Basilicata. Anche questa è una lezione: la magistratura ha perso quella egemonia politico-culturale che l’aveva trasformata nel più potente (e dirompente) potere dello Stato con il consenso tacito o esplicito della maggioranza. Le manette tintinnano, ma non pagano politicamente, il giudice giustiziere del popolo è una figura del passato, restano solo delle macchiette da commedia dell’arte, il tempo di Mani pulite è ormai passato.
Gli italiani sono prostrati, psicologicamente ancor più che sul piano economico, ma nello stesso tempo hanno una forte voglia di ripartire. Non si muovono con la sufficiente energia, sono cauti, risparmiano e non spendono (quelli che possono naturalmente), non investono, perché hanno paura del futuro e non vedono davanti a sé una chiara prospettiva. Una politica che si divide in ogni occasione, anche su questioni che sono, oggettivamente, minori, una politica dove tutto è strumentale e non si discute sulle cose, ma sugli schieramenti, dove prevale la logica amico-nemico invece che quella dei risultati, non contribuisce a mutare le aspettative sulle quali si basa la possibilità di uscire davvero dalla crisi.
Se Renzi ha colto la sostanza di questo messaggio, così come ha detto nella sua dichiarazione ieri sera, lo vedremo dai fatti già nelle prossime settimane. Anche la politica energetica sarà un banco di prova, perché bisognerà mettere a punto un vero programma di medio termine, per non ricadere nella solita logica dell’emergenza. La strategia varata nel 2012 non è un piano propriamente detto. Occorre trovare un equilibrio di mercato per le rinnovabili sovvenzionate in modo massiccio, quindi pagate due volte dagli italiani, come consumatori e come contribuenti. E bisogna delineare un percorso chiaro per le fonti fossili che resteranno dominanti ancora a lungo.
Ma la prova del fuoco riguarda la politica fiscale e quella economica in genere. Renzi ha enumerato le crisi industriali aperte, a cominciare dall’Ilva di Taranto. Il governo sta cercando di utilizzare gli strumenti che lo Stato ha a disposizione, in particolare la Cassa depositi e prestiti, ma l’uso della mano pubblica ha limiti di fondo: il primo è che mancano le risorse, il secondo è che l’Unione europea non consente aiuti di Stato, il terzo è che il capitalismo di stato in Italia non ha dato una grande prova di sé. Quindi occorre mettere in campo una pluralità di strumenti, anche con una buona dose d’immaginazione.
Il rilancio dell’industria va di pari passo con quello dell’economia in generale. Non possiamo continuare ad affidarci alle esportazioni perché la domanda estera oggi non fa più da traino in ogni caso, come ha spiegato anche l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale. Ma sostenere la domanda interna e ridurre il costo del lavoro agendo sulla componente fiscale non sarà facile, soprattutto per mancanza di risorse nel bilancio pubblico.
Renzi annuncia nuovi provvedimenti episodici, interventi un po’ qua un po’ là che fanno pensare a una strategia à la carte. Anche qui sarebbe opportuno tracciare alcune linee di demarcazione per i prossimi due-tre anni, e poi tirare dritto. Si era parlato di ridurre l’imposizione fiscale in modo graduale, ma certo, eppure le cifre dell’ultimo Documento di economia e finanza mostrano che la pressione fiscale non scende. Questo divario tra annunci e dati di fatto non contribuisce a generare quell’ottimismo al quale fa continuamente appello il capo del governo.
“Rimbocchiamoci le maniche”, ha detto Renzi. Un invito che vale anche per il governo perché vincere è difficile, ma spesso ancor più difficile è gestire bene la vittoria.