I libici in Unicredit? «Dopo Marchionne – dice l’economista Francesco Forte – ora è il turno di Profumo di rendersi più indipendente dal salotto buono della finanza storica italiana e lì dentro questo dà fastidio. Ma alla nostra economia giova, perché smuove il nostro capitalismo finanziario». Cos’hanno in comune Gheddafi e Marchionne?
La Libia ha acquisito partecipazioni rilevanti in UniCredit. Quali implicazioni potrebbe avere per Unicredit e per il nostro sistema produttivo questo ingresso del capitale libico?
Non mira ad avere né il controllo di UniCredit né una partecipazione rilevante alla sua gestione. È un ingresso di natura patrimoniale, perché la Libia ha bisogno di investire i proventi del petrolio. Ma i benefici per UniCredit sono rilevanti: questa partecipazione ha consentito a UniCredit di non fare rilevanti aumenti di capitale e di non utilizzare i Tremonti bond. Ne ha rafforzato la reputazione in un periodo difficile.
Dunque il gruppo italiano ha tutto da guadagnare.
Sì. Non dimentichiamo che UniCredit ha una situazione patrimoniale «opinabile»: questa operazione ne incrementa la solidità patrimoniale e per UniCredit, che ormai è una banca multinazionale, è un requisito importante. Dal punto di vista del controllo si tratta al massimo di un 11%, ma è quanto basta per dar fastidio a Mediobanca, perché permette a Profumo di fare gioco con vari azionisti oltre Mediobanca o quelli collegati a Mediobanca, e di rendersi indipendente.
A proposito di Mediobanca: Profumo come Marchionne?
Direi di sì. Dopo Marchionne, ora è il turno di Profumo di rendersi più indipendente dal «salotto buono» della finanza storica italiana e lì dentro questo dà fastidio. Ma alla nostra economia giova, perché smuove le strutture del capitalismo finanziario italiano, che è stato finora troppo concentrato nell’ambito di Mediobanca e delle sue partecipazioni incrociate.
E l’ingresso dei libici avrà conseguenze sulla propensione a dare credito alle nostre pmi?
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Non credo proprio. Il punto è diverso: e cioè se una banca come UniCredit, che non è strutturalmente spostata sul credito alle pmi salvo per le componenti di cassa di risparmio che esistono al suo interno, abbia ancora questo indirizzo, essendo una grande banca di natura multinazionale. Da questo punto di vista penso che potrà beneficiare le nostre imprese, che disporranno di un nuovo punto di riferimento nel mondo arabo. L’est europeo non può bastare.
Torniamo alla Fiat di Sergio Marchionne. A Rimini l’Ad Fiat ha parlato di nuovo patto sociale ma si è attirato forti critiche di tipo strategico. Una di queste viene da Romiti, che accusa Marchionne di un doppio errore: di dividere il sindacato, e di ipotizzare un futuro in cui non esista «la contrapposizione degli interessi».
La prima critica è sbagliata perché è il sindacato, al contrario, ad essere geneticamente diviso, per ragione culturali e ideologiche che forse sfuggono a un imprenditore e manager tecnico e concreto come Romiti. La Cisl si è scissa dalla Cgil pensando alla Rerum Novarum. Quanto alla Uil, anch’essa è nata per essere un sindacato libero di tipo riformista e liberale. Dunque esistono sindacati che hanno nella propria ispirazione l’economia di mercato e una prassi collaborativa, al contrario della Cgil.
Questo cosa comporta, professore?
Se la Cgil adotta questi principi più moderni e conformi all’economia di mercato, ben venga l’unità sindacale; diversamente questo non è possibile e non è dovuta. O la Cgil “va a Canossa” e riconosce, come l’ala socialista della Cgil fece negli anni ’80 sulla questione della scala mobile, che il mondo è cambiato, o niente unità sindacale: punto. Non si può pretendere di fare l’unità sindacale sulle teorie della Cgil.
A proposito del nuovo patto sociale prospettato da Marchionne, Sacconi ha detto che il tavolo c’è ed è quello in cui si parla di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa.
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Un contratto aziendale come quello che offre Marchionne implica la partecipazione. Però la partecipazione agli utili non è la sola forma possibile di partecipazione del lavoratore alla vita dell’impresa. A mi avviso anzi i vantaggi sono inferiori agli inconvenienti, e uno di questi è che aumenta il rischio cui sono esposti i lavoratori. Mettere le uova nello stesso paniere non mi pare la soluzione migliore: sono per i premi di produzione in denaro.
Lunedì scorso il Corriere ha notato le variabili incerte che gravano sul piano di Marchionne: la ripresa del ciclo economico e la domanda di nuovi modelli da parte del mercato. Tra un anno «avremo un aggregato transatlantico con due fornitori di capitali americani – sindacato Uaw e Tesoro – determinati a difendere Chrysler, la Us Factory», mentre da parte italiana un simile contraltare non è ipotizzabile …
Si possono fare quelle considerazioni solo se non si conosce il mercato dell’auto. Negli Usa l’espansione del gruppo – diversamente che nell’est Europa, in Brasile e in oriente – è prevista limitatissima, perché su 10-11 milioni di automobili che si vendono negli Usa l’idea Fiat è di piazzare su quel mercato 500mila vetture. Non mi pare che questo abbia a che fare con la congiuntura economica. Poi il governo Usa è solo transitoriamente in Chrysler e non può certamente sostenere Chrysler contro Ford e Gm. Esattamente come Marchionne non ha bisogno di mettersi sotto l’ombrello di investitori istituzionali. La domanda di nuovi modelli da parte del mercato? Nessuno è così sprovveduto da non capire che il Made in Italy può far solo bene al «vecchio e nobile marchio Chrysler».
Un articolo «politico»?
È naturalmente finanziaria prima che politica. «Questa Fiat – possiamo pensare che dicano i poteri del Corriere o parte di essi, un po’ con amore, un po’ con odio – ce la siamo tenuta noi sulle spalle, coi nostri prestiti. Ora questi se ne vanno quando si può guadagnare». Dall’altra parte hanno paura che non ce la faccia e che i prestiti che gli hanno dato non possa restituirli. Ma Marchionne, io penso, riuscirà nella sua operazione.