Il caso delle dimissioni del CdA Consip, al di là del merito delle delicate indagini sull’appalto del Facility Management, solleva la questione delicatissima del modo con cui si selezionano i dirigenti e della loro concreta missione e dimostra la necessità di regole che garantiscano una reale autonomia ai vertici gestionali. Il caso Consip è integralmente colorato di politica, visti i risvolti giudiziari che lambiscono, come noto, il Governo e vertici dei Carabinieri. Il Parlamento ha definitivamente “bollato” la questione come caso politico, presentando, tramite il Pd, in Senato una mozione che chiede l’azzeramento dei vertici della Consip, allo scopo di ottenere la rimozione dell’Ad, Luigi Marroni.
È noto che Marroni, nominato ovviamente dal Governo a suo tempo come vertice della Consip, nelle complesse inchieste sul Facility Management, ha il ruolo molto scomodo di testimone e non risulta indagato. L’iniziativa politica in Parlamento da parte del Pd appare piuttosto chiaramente il segno di un forte disagio tra la maggioranza che esprime il Governo, appunto, e l’amministratore delegato: il rapporto di fiducia appare fortemente incrinato, quali che siano le responsabilità penali.
Il problema che si pone, comunque, riguarda non la ricerca di queste responsabilità, poiché a questo deve pensare la magistratura, bensì il ruolo e i compiti dei manager e dei dirigenti pubblici. La domanda è: cosa si aspetta la politica, il Governo e, comunque, qualsiasi vertice politico (ministeriale, regionale, comunale) dai vertici che incarica in aziende o a capo delle strutture amministrative? Una corretta gestione, il conseguimento di risultati, il rispetto dell’obbligo di collaborare con la giustizia nel caso di inchieste? Oppure qualcosa di diverso? Fedeltà e consegna del silenzio, in casi delicati?
La questione è di importanza fondamentale, come si capisce. Se dalla dirigenza ci si aspetta gestione tecnica e manageriale delle aziende o delle strutture guidate, allora l’agire dei dirigenti non dovrebbe mai essere connotato da colorazione politica. Tuttavia, nel caso Consip si è verificata una chiara pressione del Governo sull’Ad perché questi si dimettesse e, in assenza del passo indietro, sono stati alcuni componenti del CdA della società a dimettersi. In un’intervista a La Repubblica del 19 giugno (“Padoan: avanti con le riforme sgravi per assumere giovani”), il ministro dell’Economia afferma: “I due membri, dirigenti del Mef, si sono dimessi, portando alla decadenza automatica del CdA, per evitare che fatti esogeni alla vicenda potessero indebolire il grande lavoro svolto da Consip sugli acquisti della pubblica amministrazione. Quello che ha accelerato questa situazione è la decisione del Parlamento di presentare una mozione che andava in questo senso, azzerare il management. Il Mef ha allora deciso l’accelerazione”.
Tale dichiarazione conferma pienamente l’impressione che si tratti di decisioni connotate in senso esclusivamente politico. I componenti del consiglio di amministrazione della Consip non si curano dell’andamento gestionale della società, ma, sulla base di un evidente “richiamo” del Mef, a sua volta condizionato dall’iniziativa del Parlamento, si dimettono allo scopo di forzare, non sul piano gestionale ma politico, le dimissioni di Marroni. È opportuno tornare alla domanda: è questo quello che ci si aspetta dalla dirigenza di una società pubblica, peraltro definita di importanza strategica, come la Consip? I componenti del consiglio di amministrazione non avrebbero il compito di garantire il miglior funzionamento possibile della società e la sua continuità, interessandosi esclusivamente del piano industriale e degli obiettivi da seguire? Non sono scelti, in base al merito e alle loro competenze, a questo scopo?
La vicenda dà la chiara sensazione che il modo di concepire il sistema di assegnazione degli incarichi dirigenziali, così come quello della loro revoca, sia fortemente estraneo alle logiche della competenza di merito e alla valutazione della capacità operativa. Si ha la dimostrazione palmare che la dirigenza viene pesantemente condizionata dalla politica, in palese contrasto col principio, discendente dalla Costituzione, di separazione tra politica e gestione. Il condizionamento dei due dirigenti del Mef, contestualmente anche componenti del CdA di Consip, appare manifesto.
La riforma Madia della dirigenza, naufragata per effetto della sentenza della Consulta 251/2016, avrebbe esteso a dismisura le ingerenze e influenze della politica nelle scelte operative e gestionali dei dirigenti, legandoli a filo doppio alla politica, non in base alla competenza, ma a rapporti di affinità partitica. Il caso Consip appare dimostrare quanto quella riforma fosse deleteria e quanto occorrerebbe sicuramente una modifica dell’assetto della dirigenza, ma allo scopo diametralmente opposto di allontanare quanto più possibile le ingerenze e le colorazioni politiche dalla gestione operativa.