Le primarie di domenica non chiuderanno il lungo scontro interno al Pd. In primo luogo perché c’è un risultato che se dovesse rivelarsi concreto aprirebbe una ferita insanabile. Penso infatti alla vittoria di Franceschini che metterebbe l’un contro l’altro il partito degli iscritti e il popolo delle primarie. Ma anche un risultato per così dire normale, come la vittoria di Bersani, creerà tensioni nuove. C’è una parte del partito che si appresta ad abbandonarlo. Non si tratta solo dei seguaci di Rutelli, ma anche di quel mondo non piccolo di veltroniani che considera la vittoria dell’ex ministro come una rinuncia al progetto originario del partito democratico.
Il problema vero che ha di fronte a sé il Pd è non solo l’amalgama non riuscito, per citare un’espressione di D’Alema, ma soprattutto il fatto che non è chiaro lo spazio politico in cui il nuovo partito vuole agire.
Nei prossimi mesi assisteremo a una nuova offensiva berlusconiana incentrata sulle riforme strutturali. Giustizia e forma dello Stato saranno al centro della scena. Sono due temi su cui il Pd non ha scelto la propria linea. C’è un’area del partito, quella che fa capo a Franceschini, che è decisa a contrastare con ogni mezzo le proposte di Berlusconi. C’è un’altra area, quella che dovrebbe far capo a Bersani e D’Alema, che negli anni scorsi si era dichiarata disponibile ad una revisione della Costituzione. Sono posizioni irriducibili che non hanno trovato spazio nel dibattito sulle primarie ma che presenteranno il conto nei prossimi mesi.
Ma anche sui temi sociali il Pd si presenta privo di una linea. Appena pochi giorni fa una importante categoria di lavoratori, i metalmeccanici, ha chiuso un accordo sindacale registrando una profonda spaccatura fra le Confederazioni. In altri tempi si sarebbe saputo da che parte si collocava il più forte partito di opposizione. Questa volta è stata messa la sordina e il Pd ha fatto finta di non aver visto né ascoltato.
Infine c’è il tema dei temi. L’area dell’opposizione a Berlusconi è dominata da protagonisti diversi dal Pd che cercano in ogni modo di condizionarlo. C’è un grande gruppo editoriale, quello che fa capo a Carlo De Benedetti, che si sta rivelando come il vero stato maggiore degli antiberlusconiani. C’è un piccolo partito, quello di Di Pietro, che spera di lucrare sulle contraddizioni del suo alleato maggiore. Stiamo assistendo al paradosso del partito più grande che invece di dettare la linea a tutta l’opposizione è diventato il campo di battaglia di numerose forze esterne che cercano di scalarlo. Vista così la situazione consente anche di capire qual è il candidato che meglio di altri può accelerare la crisi o può cercare di porre un argine.
Ignazio Marino è un outsider monotematico che non è in grado di offrire soluzioni ma può rappresentare l’area dello scontento laicista. C’è Franceschini che rappresenta la corrente radicale di massa che ormai si è insediata nel cuore della vecchia sinistra. C’è, infine, Pierluigi Bersani che dà voce a un’ipotesi riformista che cerca di sfuggire al clamore antiberlusconiano e di proporre soluzioni concrete alla crisi italiana.
Bersani probabilmente non ha il carisma del grande leader, ma incarna il tentativo di ritornare allo schema Prodi del ’96. Alleanze larghe e al centro una forza tranquilla che lanci segnali a quella parte del paese che è stanco di questo clima di scontro frontale. Il pericolo maggiore che tuttavia corre il Pd è che all’indomani della consultazione delle primarie lo scontro interno invece di assopirsi riparta con maggiore vigore. Le premesse ci sono tutte.