«Prima le donne e i bambini!»: così suonava il classico appello a mettere in salvo i più deboli in situazioni di pericolo incombente. Un appello ormai archiviato dalle esigenze del politicamente corretto, che impedirebbe di definire tout court “deboli” le donne. Ma anche se si volesse aggiornarne il significato, e intendere la frase nel senso della priorità in tema di diritti, bisognerebbe riconoscere che risulta superato: dei diritti delle donne ci si occupa moltissimo, di quelli dei bambini decisamente di meno.
Da ultimo, questo è avvenuto in occasione del dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile femminile: un bel volume sul tema, curato da Emma Bonino e appena pubblicato da Rubbettino, ne offre ora un eloquente saggio. In “Pensionata a chi?”, numerose voci autorevoli (da ministri come Sacconi a parlamentari come Cazzola e Ichino, da studiosi come Kostoris e Saraceno a sindacalisti come Polverini) si confrontano sull’innalzamento dell’età pensionabile femminile.
Il tentativo è quello di supportare in maniera motivata, interpellando tutti i fronti coinvolti, la proposta di equiparare il limite pensionabile delle donne a quello degli uomini. Il discorso si allarga fatalmente ai dilemmi delle pari opportunità: la distribuzione degli impegni domestici, la conciliazione tra famiglia e lavoro, la responsabilità della cura degli anziani e dei figli. E ancora una volta, a questo proposito, la principale soluzione auspicata è quella dell’aumento dei servizi di cura – in primis gli asili nido.
Non è certo una novità: l’incremento del numero delle strutture pubbliche per la prima infanzia, cui delegare in tutto o in buona parte l’allevamento e la prima educazione dei bambini, è da tempo vista come la vera panacea dell’occupazione femminile, a prescindere da qualsiasi valutazione di merito sugli effettivi benefici per i piccoli ospiti, e sulle ripercussioni che la precoce separazione dai genitori potrebbe sortire.
Tuttavia, una volta tanto, nel volume si fa strada anche una prospettiva differente, sposata da alcuni interventi: i quali sottolineano che questioni come l’allevamento dei bambini e l’assistenza agli anziani non dovrebbero essere considerati un problema esclusivamente femminile, e di conseguenza dovrebbero essere affrontati nell’ottica familiare. Non si tratterebbe, insomma, meramente di erogare alle donne agevolazioni isolate, sia pure con la lodevole intenzione di favorirne il pieno inserimento nel mercato del lavoro e contrastare le disparità di trattamento rispetto agli uomini; ma di indirizzare le misure di sostegno alla famiglia nel suo complesso – ad esempio, sostenendo chi al suo interno a chi si dedica al lavoro di cura, a prescindere che sia uomo o donna.
È questo il punto di partenza per imprimere una svolta al nostro welfare: ragionare in termini di famiglia. Non solo, e non tanto, per legittimare una volta di più la tradizione della subalternità femminile tra le mura domestiche; ma per affermare con forza l’importanza della famiglia come sistema, nel quale disagi e svantaggi di un componente si ripercuotono su tutti gli altri. Questo vale in particolare per i bambini, il cui punto di vista raramente viene tenuto in considerazione.
Scrollandosi di dosso l’onere del doppio lavoro (o protestando il loro diritto a farlo), le donne hanno inteso rivendicare la parità nei confronti degli uomini; ma invece di portare alla condivisione delle responsabilità familiari tra i due sessi, questa rivendicazione si è tradotta in una delega via via più estesa del lavoro di cura a figure e istituzioni assistenziali esterne alla famiglia. Il risultato è che, anziché farsi aiutare dai padri, le madri invocano il soccorso di asili nido, baby sitter e badanti: anziché alternarsi nello stare accanto ai figli e agli anziani, donne e uomini hanno concordato di affidare entrambi a terzi, per continuare ciascuno per la sua strada.
Le donne non ne hanno certo guadagnato: la loro, di strada, continua ad essere lastricata di difficoltà. I dati sulla presenza femminile nella classe dirigente, tanto in ambito lavorativo quanto politico, restano tutt’altro che incoraggianti: le donne manager sono solo il 30% in Europa e il 20% in Italia; nella maggioranza dei parlamenti nazionali europei la rappresentanza femminile non raggiunge il 25%, e scende al 17% in Italia.
Ma chi ci ha decisamente perso sono i bambini: una generazione destinata a crescere lontano dai genitori, dai quali vengono separati a pochi mesi di vita, per rivederli da allora in poi solo poche ore al mattino, alla sera e nei fine settimana. Sono loro le principali vittime del gioco al ribasso ingaggiato da mamma e papà, impegnati a superarsi in carriera; sono loro ad essere danneggiati dalla loro gara a chi si realizza di più sul lavoro, dedicandosi di meno alla famiglia. E di converso, sarebbero i bambini i primi a beneficiarne, se questa folle rincorsa si interrompesse: se donne e uomini realizzassero che la famiglia è affare loro, non dei servizi sociali; se cominciassero a cooperare, facendo ognuno la sua parte.
A quel punto, anche il welfare non potrebbe che seguire, organizzandosi intorno alla centralità della famiglia: senza più bisogno di distribuire dall’esterno oneri e onori, senza più bisogno di rovesciare le discriminazioni in tutele indebite, senza più bisogno di anteporre la parità dei diritti tra i due litiganti al diritto del terzo, dispari per definizione, cui resta poco da godere.