La Borsa è rimasta alla finestra, lasciando Telecom quasi invariata il giorno dopo l’assemblea della presunta “svolta” verso una proprietà contendibile. Marco Fossati, eterno azionista di minoranza, forse definitivamente sconfitto dal voto di mercoledì per il rinnovo del cda, invece non ha dubbi: avrebbe vinto ancora “l’arroganza” di Telco, anche se la holding fra Telefonica, Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo fra poche settimane non esisterà più. Al lamento di Findim resta associata l’Asati, la mini-associazione dei piccoli azionisti Telecom, tradizionale voce dell’ex presidente Franco Bernabé: “Occasione persa” per un vero cambio di governance.
Le idee rimangono d’altronde poco chiare fra le organizzazioni: se la Spi-Cgil saluta la Telecom “public company” – riecheggiando i titoli a caldo dei grandi media -, la Cisl mostra invece “soddisfazione” per la “concordia” che sarebbe tornata fra i grandi azionisti. Resta però il fatto che mentre i grandi investitori istituzionali raccolti da Assogestioni – a sorpresa – hanno prevalso su Telco nella voto iniziale, aggiudicandosi tre posti su dieci nel nuovo consiglio, Findim ne è rimasta clamorosamente esclusa: a cominciare da Vito Gamberale, l’ex “boiardo” di Stet che per rientrare nel campione italiano delle tlc aveva annunciato le dimissioni dal vertice F2I, potente fondo infrastrutturale della Cassa depositi e prestiti.
Qualcosa, certamente, non è andato secondo copione nell’assemblea fiume di mercoledì, o meglio: non c’era un copione concordato fra tutti, come forse Findim immaginava. Può darsi che sia stata in parte concordata la “sorpresa” che ha escluso Findim: ma questo, per definizione, non sarà mai provato, verrà anzi sempre negato. Però gli osservatori più maliziosi sul mercato qualche sospetto ce l’hanno e non è un caso che credano poco a una Telecom davvero “contendibile”, resa invitante da un inatteso “schema libero”. Più facile che il cda “concordato” – in cui Telco mantiene comunque saldamente la maggioranza -, ma eletto con modalità apparentemente “competitive”, sia utile ai soci di riferimento per affermare che invece in Telecom non c’è nessun socio di controllo.
Questo toglierebbe anzitutto d’impaccio la Consob, nel giudicare il lungo “progress” dell’accordo fra Telefonica e i soci italiani, che dal prossimo giugno dovrebbero cominciare a trasferire pacchetti Telecom al colosso spagnolo. Ma più ancora dell’authority di Borsa italiana sarebbero le authority brasiliane a dover prendere atto (non necessariamente con rammarico) che non esistono nodi strutturali – e quindi conflitti d’interesse – fra Telefonica e Telecom, spegnendo quindi i fari attorno a Tim Brasil (tuttora controllata dal gruppo italiano) e agevolando quindi l’eventuale passaggio della società a Telefonica.
Quest’ultima operazione resta l’obiettivo plausibile di Telefonica – mai convintissima di ereditare dai soci italiani Telco la maggioranza relativa di Telecom -, ma anche del mercato: la recente puntata di Blackrock – accreditata in un certo momento di oltre il 10% in Telecom – segnalava i chiari appetiti del mercato in questa direzione. È curioso che proprio Findim – ultra-penalizzata negli anni nel valore di mercato del proprio 5% – si fosse spesa negli ultimi mesi contro l’ipotesi di vendita di Tim Brasil. Più possibilista – attraverso la candidatura di Gamberale – Fossati sembrava invece sulla dibattuta ipotesi di scorporo della rete Telecom verso F2I-Cdp. Ma la prospettiva pare aver perduto via via “appeal”: perché e a quale prezzo lo Stato italiano dovrebbe risolvere il problema del debito accumulato 15 anni fa da Telecom in occasione dell’Opa a leva di Roberto Colaninno appoggiato da Massimo D’Alema?
L’agenda digitale resta certamente d’attualità – anche se Francesco Caio è stato spostato al vertice operativo delle Poste -, ma un governo come quello pilotato da Matteo Renzi difficilmente può partire dall’impegno di molte centinaia di milioni della Cdp per acquisire una rete da rinnovare completamente, a beneficio di una società privatizzata da quasi vent’anni, finora precariamente controllata da istituzioni finanziarie ben poco popolari e comunque non creditrici di nulla verso il “new power” di Palazzo Chigi.
Non da ultimo: un governo che quattro giorni fa ha varato nomine pubbliche di pur faticosa rottura con il passato, poteva gradire il rientro di Gamberale in Telecom? Un “placet” tacito era invece andato in anticipo alla decisione di Giuseppe Recchi di candidarsi alla presidenza Telecom per conto di Telco: lasciando subito libera l’importante presidenza Eni per il ricambio desiderato da Renzi. Ma Recchi – ex capo di General Electric Italia – già al vertice del Cane a sei zampe ha rappresentato una discreta vigilanza statunitense su un gruppo petrolifero che il Ceo Paolo Scaroni aveva nuovamente condotto su tracce strategiche autonome, proiettate verso la Russia di Vladimir Putin.
Ecco ora Recchi andare a “presidiare” Telecom: in coincidenza con l’avvento di Renzi (attento al mondo anglosassone tanto quanto dialettico verso la Ue germanocentrica) e con lo “shopping” dei grandi fondi di Wall Street a Piazza Affari. Un gioco troppo grande per un ricco signore della Brianza e anche per un vecchio tecnocrate pubblico della Prima Repubblica. Ma forse più grande anche di quanto avessero immaginato i soci Telco annunciando il loro accordo lo scorso autunno.