Un piano ambizioso da valutare a fondo dettagli alla mano. È positiva ma prudente la reazione di Eugenio Caperchione, ordinario di Economia aziendale all’Università di Modena e Reggio Emilia, al piano di vendita di beni pubblici finalizzato all’abbattimento del debito lanciato domenica dalle pagine del Corriere della Sera dal neoministro all’Economia Vittorio Grilli. Il piano mira a recuperare 15-20 miliardi di euro all’anno per dieci anni tramite la vendita di immobili e quote di società pubbliche o partecipate al fine di ridurre al 100% del Pil (dall’attuale 123%) lo stock del debito pubblico italiano; debito che intanto è salito alla cifra record di 1966 miliardi di euro, come certificato oggi dalla Banca d’Italia. E se la partenza del neoministro è stata accolta con soddisfazione, non mancano tuttavia alcuni rilievi critici e proposte che Caperchione ha voluto spiegare al ilsussidiario.net.
La spending review è giunta al capitolo privatizzazioni di società e immobili pubblici. Come le sembra il piano proposto dal neoministro dell’Economia Grilli?
L’inizio mi pare positivo. Perché il governo inizia ad affrontare uno dei nodi rimasti sullo sfondo in questi mesi: quello dell’eccessiva quantità di debito, che può e deve essere ridotta attraverso la vendita di assets pubblici. Non è ragionevole infatti pagare interessi sul debito elevatissimi avendo a disposizione dei beni che non rendono e che non sono nemmeno utilizzati per dare servizi. Nessuna impresa e famiglia ragionevoli si comporterebbero così.
Eppure è un tema, quello della vendita di beni pubblici da parte dello Stato, di cui, anche negli ultimi anni, spesso si è parlato senza poi conseguire risultati concreti…
È vero, ma trovo interessante il fatto che il ministro abbia parlato non soltanto di 15-20 miliardi di euro per quest’anno, bensì di un piano decennale volto a ridurre il debito al 100% del Pil, in luogo dell’attuale 123%. Mi pare un progetto ambizioso. Ovviamente occorre attendere i dettagli concreti del piano per poterlo studiare e commentare a fondo.
Il ministro Grilli intanto ha iniziato a consultare investitori internazionali. Si sono fatti i nomi di importanti banche d’affari e fondi potenzialmente interessati, come quelli arabi, a partire dall’Emiro del Qatar che ha appena acquistato la casa di moda Valentino. Non la preoccupa?
È decisivo riuscire a capire dove vanno a finire i beni pubblici, dove va a finire la loro proprietà. Perché – in questo momento è oggettivo – i mercati, anche immobiliari, sono depressi. E vendere immobili con l’obiettivo di raggiungere importi consistenti, pari a 15-20 miliardi l’anno, significherebbe essere disponibili ad accettare prezzi anche bassi.
C’è il rischio di “svenderli” insomma.
Certo. Quello che più mi preoccupa è la possibilità di svendere assets a soggetti stranieri che poi potrebbero fare con questi beni quello che vogliono, senza grande attenzione alle esigenze di chi in Italia ci vive e ci lavora. Se invece questi beni si vendessero cercando di mantenere una quota significativa di proprietà in capo a investitori italiani, la situazione sarebbe più accettabile.
Ma a chi?
Credo che nel processo di privatizzazione sarebbe molto opportuno provare a coinvolgere le famiglie italiane. In un momento di sacrifici queste possono acquistare quote di beni pubblici che in un momento successivo potranno anche essere meglio valorizzati (tramite affitto o vendita ad altri soggetti), generando un reddito per gli investitori. Io sono sicuro che molte famiglie, se fosse proposto loro un investimento al posto di una parte delle imposte che pagano, sarebbero ben disposte ad aderire.
In un momento di forte instabilità finanziaria non è rischioso vendere parte del patrimonio pubblico che, insieme con i risparmi delle famiglie, è tradizionalmente una delle voci di maggiore garanzia della stabilità del sistema Italia?
Per gli investitori internazionali le garanzie del debito pubblico non provengono certo dal possesso o meno di questi beni. I sottoscrittori del debito pubblico, siano essi privati o investitori istituzionali, guardano fondamentalmente alla capacità di ripagare il debito alle scadenze. E per ripagare il debito alle scadenze la prassi normale non è quella di vendere beni, ma di disporre di flussi costanti di risorse.
Ci spieghi meglio.
La vera garanzia per gli investitori internazionali è che in uno stato cresca il Pil, la ricchezza prodotta. Occorre uno Stato in cui le imprese e le famiglie producono ricchezza e risparmi, in cui l’amministrazione sia oculata e ordinata, che sappia tassare ma sappia anche rendere efficiente la spesa pubblica . Il fatto di mantenere la proprietà di 100 caserme dismesse, piuttosto che di altri immobili, non offre a questo riguardo alcuna garanzia.
Non si corre nessun rischio invece a vendere società che offrono servizi pubblici?
Se andiamo a ragionare sulle imprese di servizi, ci possono essere dei problemi a vendere, nella misura in cui gli acquirenti possono agire in regime di monopolio o oligopolio; ma a questo lo Stato può rimediare usando correttamente i suoi poteri di supervisione e controllo, tramite i quali si può indirizzare l’attività dei privati, se necessario.
Che requisiti dovrà avere la Società di gestione del risparmio cui saranno affidate le dismissioni?
Mi pare che ci siano sue aspetti importanti. Il primo è che sia una società con un ampio livello di trasparenza, tanto sugli obiettivi quanto sui risultati, e meccanismi di governance chiari. Il secondo concerne le competenze: le persone che siederanno ai tavoli decisionali dovranno essere di alto profilo tecnico relativamente alla mission di valorizzare i beni. Il rischio, in caso contrario, è quello di creare un centro di potere che pur avendo la proprietà di imponenti quote di immobili e società sarà soggetto solo blandamente ad un controllo di tipo democratico. Con tutte le conseguenze negative che si possono immaginare.
(Matteo Rigamonti)