In un periodo di forte instabilità finanziaria e di previsioni catastrofistiche sull’entità e la durata della crisi, non deve stupire che qualcuno abbia additato i media (come produttori e diffusori di notizie) tra i responsabili della crisi finanziaria e reale che oggi attanaglia l’intera economia mondiale. Secondo questa tesi, i media sarebbero responsabili della crisi perché, nella ricerca di titoli ad effetto e del sensazionalismo ad ogni costo avrebbero indotto nei cittadini comuni (gli agenti economici meno sofisticati) una serie di comportamenti irrazionali che hanno portato al crollo dei listini.
D’altra parte già John Maynard Keynes più di 70 anni fa, spiegava con il concetto di “animal spirit” le cause dei repentini e spesso imprevedibili movimenti dei prezzi dei titoli che sembravano essere ingiustificabili da un’analisi dei cosiddetti “fondamentali”. Più recentemente, e almeno a partire dagli anni ‘70, gli economisti sono concordi nell’attribuire alla distribuzione asimmetrica delle informazioni (asimmetrie informative) un ruolo cruciale nel configurare le dinamiche del mercato. In quegli stessi anni la psicologia ha cominciato a fornire delle congetture utili (come la prospect theory) per spiegare una serie di comportamenti degli agenti economici che non potevano essere spiegati all’interno della razionalità microeconomica.
Ma allora i media sono o non sono responsabili della crisi? La risposta a questa domanda non può prescindere da due questioni: la prima, di carattere teorico-istituzionale, riguarda il ruolo dei media in una società democratica e in un’economia di mercato; la seconda, di carattere empirico, riguarda l’effetto che le notizie dei media generano sull’andamento dei titoli azionari.
In una società democratica, alcuni giornalisti economici e finanziari ritengono che il loro compito principale sia quello di fornire informazioni utili agli investitori; altri ritengono che il loro ruolo primario sia favorire gli azionisti della società che possiede il giornale, facendo vendere più copie possibile; altri ancora ritengono che il loro ruolo sociale sia principalmente quello di servire l’interesse pubblico tenendo sotto controllo le autorità di vigilanza, le imprese e le istituzioni finanziarie (agendo cioè come watchdogs).
In questo ultimo senso si può giustificare (e così è stato giustificato anche dal Treasury Committee della Camera dei Comuni) l’intervento di Robert Peston, Business Editor della BBC, che aveva informato il grande pubblico dello stato pericolante della finanze della Northern Rock il 13 settembre e aveva in seguito mostrato l’esistenza di code di risparmiatori che cercavano di ritirare i propri depositi dalle filiali di quella banca
In un’economia di mercato, sempre più condizionata dalla globalizzazione e dalla diffusione delle ICT, bisogna considerare la rilevanza di fattori che rendono sempre più difficile il lavoro di un giornalista economico e finanziario: la maggiore velocità con cui le notizie finanziarie sono diffuse al pubblico; la complessità della materia; il potere crescente delle agenzie di pubbliche relazioni; l’esistenza di rilevanti vincoli di tempo e competenze nelle redazioni.
Venendo alla seconda questione, relativa all’effetto delle notizie sui corsi azionari, è forse utile riassumere una serie di risultati ottenuti dalla letteratura empirica più recente sull’effetto che i media hanno sul comportamento degli agenti e, dunque, in seconda istanza, sulle dinamiche dei mercati finanziari.
Oberlechner e Hocking (2004), analizzando il comportamento di circa 600 traders di divise estere appartenenti sia a banche commerciali che a banche centrali e di circa 200 giornalisti finanziari in Europa, mostrano una sostanziale asimmetria di relazioni tra operatori del mercato e giornalisti. Per i traders sono le relazioni con altri traders o analisti le maggiori fonti di informazione; per i giornalisti, invece, è proprio il contatto personale con gli operatori all’interno delle istituzioni finanziarie la fonte più attendibile.
Davis (2005), focalizzando l’attenzione sul comportamento di investitori istituzionali operanti sul London Stock Exchange, mostra che i media hanno un effetto molto limitato sul comportamento di questi agenti sofisticati mentre tendono ad avere un ruolo maggiore su investitori di minor dimensione che operano ai margini del LSE. In questo senso il ruolo dei media è visto come quello di un fattore di rinforzo (che provoca movimenti dei prezzi più ampli) di dinamiche generatesi altrove.
Tetlock (2007), basandosi sull’analisi testuale di 16 anni di “Abreast of the Market” (una rubrica specializzata del Wall Street Journal), dimostra che il contenuto dei media è una buona misura delle percezioni degli investitori, escludendo al contempo sia che tale rubrica possa alterare il valore di fondo di un titolo (basato sui fondamentali), sia che i media non abbiano alcun effetto sulle variazioni giornaliere dei mercati.
Barber e Odean (2008), studiando il comportamento di circa 10.000 investitori individuali e 43 investitori istituzionali lungo un periodo di circa 5 anni, dimostrano che gli investitori individuali (cioè quelli meno informati) tendono a essere acquirenti netti di titoli nei “giorni di alta attenzione” (cioè in cui (i) l’impresa sottostante era citata dai giornali, (ii) vi era stato un volume di scambio superiore al normale, (iii) vi era stato un elevato rendimento giornaliero il giorno precedente), mentre gli investitori istituzionali (cioè quelli più informati) tendono a essere venditori netti negli stessi giorni.
In sintesi, la letteratura economica più seria se da un lato evidenzia il potere di influenza dei media nei confronti degli investitori meno informati , o “noise traders”, smentisce la tesi secondo la quale i media possono essere direttamente responsabili di grandi movimenti nei prezzi dei titoli e, conseguentemente, che possano essere indicati come i colpevoli del crollo delle borse. I mercati non sono infatti composti soltanto da questo tipo di agenti, ma anche da investitori istituzionali e bene informati (detti “smart money”) e da investitori passivi, che hanno un’attività di trading limitata e che guardano al rendimento nel lungo periodo. È evidente che il comportamento di queste tre tipologie di agenti non è correlato positivamente e questo esclude la possibilità di una crisi generata dai media.
Infine una legislazione che cercasse di limitare la libertà di stampa invocando il bene superiore della stabilità finanziaria e del benessere collettivo rischierebbe di mancare il bersaglio e di creare un problema peggiore. Insomma se l’asimmetria informativa produce “fallimenti nei mercati” non è certo limitando il compito di chi ha il compito di diffondere l’informazione che si migliorerà l’efficienza dei mercati.