Dinnanzi alla crisi attuale, che non permette di abbassare la pressione fiscale, può apparire retrogrado, se non addirittura provocatorio e lezioso, il riproporre una soluzione che ai più fa arricciare il naso: la tassazione fissa od anche flat tax.
L’interrogativo che soggiace ad una riflessione urgente quanto impopolare è sempre il medesimo: fino a quale punto, in quale ambito ed a qual prezzo è legittimo che lo Stato si occupi del cittadino e si impegni a spendere per conto suo (tassandolo)? Provo a porre questo interrogativo in maniera asettica, volendo prescindere da quanta spesa pubblica gravi sullo Stato, ed anche dalla reale efficienza dei servizi effettivamente forniti alla cittadinanza. A voler essere crudi quanto basta, sarebbe utile comprendere dove si situi la linea di demarcazione tra un accettabile e sensato finanziamento della spesa dello Stato e la “predazione” degli individui-privati-cittadini.
Questa riflessione può certamente giovare e trovare risposte qualora vi fosse un welfare state equilibrato, sussidiario, equo ed efficiente. Tuttavia non è sempre così, il gettito non è mai sufficiente, il governo ha effettivamente ereditato una situazione di difficilissima gestione, non c’è crescita demografica, dunque le aliquote per definizione non possono essere attenuate. Tutto questo è comprensibile e fondato, e va inoltre lodato il fatto che alcuni temi come quello della sussidiarietà non erano nemmeno in agenda prima dell’avvento dell’attuale Governo.
Si può dunque provare a vagliare nuovi criteri, seguendo il modello di alcuni paesi emergenti, fatte naturalmente le dovute eccezioni e proporzioni, vista la complessità del retaggio che il nostro paese si trascina. Ciò che appare iniquo e sperequativo è l’unione dei due criteri sui quali si fonda la politica fiscale: la proporzionalità e la progressività. I due principi applicati congiuntamente risultano discriminatori e lesivi verso coloro che guadagnano di più. Va infatti ravvisato che in linea teorica il criterio della proporzionalità già svolge ed esaurisce una raccolta del gettito maggiore nelle fasce di reddito più alte.
Chi guadagna 100 e versa al fisco il 30%, ad esempio, versa di più rispetto a chi ha un reddito minore e versa la stessa aliquota. Il criterio della progressività comporta il dovere di soggiacere ad aliquote più alte man mano che il reddito è maggiore: chi produce più reddito è tenuto a versare di più in via esponenziale. I due criteri, insieme, colpiscono due volte chi è più produttivo, come a dire che il principio-guida è colpire chi produce, dunque chi guadagna, dunque chi ridistribuisce. Tutto questo mostra quanto, alla fine del processo, possa apparire ingiusto il nostro sistema: in nome di una equità sociale apparente si rischia di lacerare l’economia reale del paese, sottraendo maggiori sostanze a chi più produce (e ridistribuisce), e fornendo in cambio dei servizi non sempre efficienti e per di più insufficienti. Il criterio della progressività potrebbe essere edulcorato con l’applicazione di sgravi fiscali rilevanti a favore di start-up, piccole e medie imprese, e magari allargando la "no-tax area" ai percettori sotto una certa soglia.
In un momento storico in cui il Governo in carica ha larghe possibilità di attuare le riforme, viene da chiedersi perché non si approfondisca una riflessione coraggiosa ma benefica. Sarebbe estremamente meritorio, e perché no, potrebbe addirittura "fare la storia".
La cosiddetta flat tax (ovvero un’unica aliquota applicata a tutti i percettori di reddito) è stata applicata con successo in diversi paesi europei (Estonia, Lituania, Slovacchia, Polonia, Serbia e Romania). Vediamone i vantaggi: anzitutto semplificazione normativa. L’aliquota flat riorienta verso attività produttive – così nell’apparato burocratico così come nel privato – coloro che sono dediti a seguire ed interpretare i rivoli più tortuosi del sistema a tassazione progressiva. Un’unica aliquota, modesta – ipotizziamo il 20% – sarebbe la soluzione al male dell’evasione, il gettito fiscale crescerebbe, la produzione industriale aumenterebbe così i salari e le esportazioni (vedere l’esempio della Romania nel 2005: entrate +8%, produzione industriale +5,3%, salari reali +6,9%, esportazioni +17,4%). Anche sul piano psiciologico, un’aliquota unica sarebbe percepita come più equa. Un’aliquota unica, sostenuta dal solo criterio della proporzionalità, permetterebbe di allineare le pretese del fisco all’economia reale del paese, agevolando in tal modo lo Stato a raccogliere e ridistribuire: beninteso, in maniera responsabile, con “la diligenza del buon padre di famiglia”, attraverso una spesa pubblica seria e oculata. Ma certo, qui si sfocia nella sfera etica, che non è mai di un sistema bensì propria dell’individuo. Illusione o provocazione che sia, è utile rifletterci.