Sarebbe ingeneroso commentare il semestre in cui l’Italia ha avuto il compito di presiedere gli organi di governo dell’Unione europea raffrontando le aspettative suscitate dalle promesse dello scorso maggio/giugno con i risultati quali si possono constatare a fine dicembre. Le promesse contengono sempre una buona dose di retorica e si è puntato molto in alto (un’interpretazione estensiva di trattati e di accordi inter-governativi in materia di flessibilità) allo scopo di raggiungere obiettivi più modesti, quali lo scomputo degli investimenti pubblici dal calcolo dei parametri attinenti al rapporto tra indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Prodotto interno lordo (Pil).
In effetti di concreto si è ottenuto molto poco: lo “scomputo” sarà consentito all’Italia, e ai nostri partner, unicamente per gli investimenti attinenti al quel “piano Juncker” che, come abbiamo scritto, si regge su complicate e strane alchimie e forse non decollerà mai.
Occorre dare atto alla tenacia e all’energia del Presidente del Consiglio, tuttavia, di aver contribuito alle richieste di altri Capi di Stato e di Governo di riportare il tema della crescita nell’agenda europea. Dobbiamo anche dare atto che il semestre ha avuto luogo in un momento particolarmente infausto caratterizzato dal cambiamento della Commissione europea, da un’eurozona additata dal G20 come il grande malato dell’economia mondiale, da una guerra al confine orientale (Ucraina-Russia) e dal Medio Oriente in subbuglio con il sorgere dell’Isis.
La crescita è tornata tra i temi dell’agenda europea, ma non è certo che ne sia l’argomento centrale. Perché l’Italia possa proporre, in seno agli organi Ue, che la crescita abbia un ruolo maggiore deve, innanzitutto, uscire dalla condizione di ultimo della classe, “rimandato e declassato” come ricordato su queste pagine. È necessario ammettere che Governo e Parlamento non hanno dato un bello spettacolo nel completare la Legge di stabilità con il voto di fiducia su un maxiemendamento le cui coperture non sono certe.
Ci sono casi, specialmente se si è stati rimandati agli esami di riparazione, in cui è preferibile qualche settimana di esercizio provvisorio per mettere bene a punto la normativa e presentarsi agli “esaminatori” con un compito ben fatto. Sarebbe disastroso se la prima relazione di cassa, coincidente con la verifica europea del “caso Italia”, mostrasse che siamo stati frettolosi e pasticcioni.
Inoltre, le prospettive per il futuro non sono rassicuranti. Abbiamo spesso fatto riferimento alle stime del gruppo del consensus (20 istituti privati econometrici) che, però, hanno una durata di 24 mesi. Rivolgiamoci ad alcune a medio e lungo periodo approvate dai rappresentanti ufficiali del Governo italiano. Le più ottimiste sono quelle della Commissione europea, che mostrano una graduale ripresa sino a raggiungere il tasso di crescita dell’1,1% nell’ipotesi di energiche riforme dei mercati dei prodotti e dei servizi e di un serio programma di privatizzazione. L’Ocse vede un ritorno a un tasso crescita del 2% verso il lontano 2025 , sotto l’ipotesi di politiche ottimali, per poi riprendere a scendere a ragione dell’invecchiamento della popolazione. Per il Fondo monetario internazionale si giungerebbe a un tasso di crescita dell’1,3% (sempre con politiche ottimali) ma subito dopo tornerebbe il declino. L’ufficio studi economici ci vede ansimanti alla ricerca di un tasso di crescita dell’1% l’anno.
Se dai grafici e dalle tabelle si passa ai testi, due sono i temi di fondo: la produttività dei fattori e il peso del debito. Sono stati affrontati con l’energia del caso nel corso del semestre? Ce lo chiediamo.