Sperava che l’accordo venisse ratificato, ma un regalo del genere non se lo aspettava di certo. Sergio Marchionne, ad di Fiat group, non solo ha incassato l’ok sul memorandum d’intenti firmato dal suo gruppo con Chrysler, ma il team di Barack Obama per la ristrutturazione del settore automobilistico Usa ha anche subordinato la concessione degli aiuti di Stato all’azienda Auburn Hill alla ratifica dell’intesa italo americana.
Di certo non poteva andare meglio. Ora Marchionne ha di fronte un interlocutore disarmato che non può far altro che firmare o fallire. A qualsiasi condizione. Forse anche migliori di quelle prospettate finora che erano già ottime. Fiat cederà alla Chrysler la propria tecnologia per la produzione di automobili piccole (in pratica, aprirà cassetti che contengono progetti che ha in larga parte ammortizzato) e otterrà a costo zero il 35% delle azioni della casa automobilistica americana.
In questo modo, tra uno o forse due anni, uscirà negli Stati Uniti, e magari anche in Europa, un’auto firmata Chrysler lunga meno di quattro metri, con un motore di poco più di un migliaio di centimetri cubici di cilindrata che forse non ci assomiglierà per niente, ma sarà, sotto la carrozzeria, una specie di Punto o di Panda.
Dall’altra parte, Fiat Powertrain, la società del Lingotto che produce e commercializza motori, si ritroverà un nuovo, importante cliente che permetterà di vendere un numero maggiore di propulsori, i concessionari americani di Chrysler cominceranno a vendere Alfa Romeo e Abarth, quando le vetture italiane saranno pronte per il mercato del Nord America dal punto di vista normativo e Fiat si ritroverà in casa una tecnologia, i pianali e i disegni per realizzare fuoristrada, crossover e auto di grossa cilindrata che non ha i soldi per mettere in cantiere da sola.
Niente che possa pesare sul bilancio economico di quest’anno, ma abbastanza per guardare al futuro dell’azienda torinese con maggiore ottimismo. Il Lingotto, inoltre, avrà una partecipazione azionaria importante oltreoceano. Che potrebbe anche diventare maggioritaria, visto che poco più del 19% di Chrysler è ancora in mano a Daimler che, dopo un rovinoso tentativo di integrazione durato otto anni con la casa americana, ha ceduto nel 2007 la maggioranza al fondo di private equity Cerberus per circa 5,5 miliiardi di euro. Questa quota è in vendita e considerate le condizioni della casa automobilistica americana che produce anche Jeep e Dodge, è sicuramente a buon mercato.
In questo quadro non si capisce il tracollo in Piazza Affari del titolo Fiat di ieri, come non si capisce quello degli altri costruttori di auto a livello mondiale nelle rispettive Borse. Le condizioni poste dal presidente americano per il rifinanziamento di General Motors e Chrysler non sono draconiane e c’è la concreta speranza che possano essere soddisfatte. Forse è proprio questo che scontano i listini. I costruttori americani si salveranno, anche se magari ne usciranno ridimensionati e l’eccesso di capacità produttiva non si risolverà con la chiusura dei due giganti di Detroit.
Non sono servite ai mercati neanche le dimissioni di Rick Wagoner, presidente e amministratore delegato di General Motors, chieste e ottenute da Obama. Non era un mistero che Wagoner fosse il bersaglio di critiche sempre più accese a causa del peggioramento delle condizioni finanziarie di GM e per l’atteggiamento tenuto durante le audizioni al senato americano. Era invece un vero mistero il fatto che riuscisse a conservare il suo posto. Da otto anni alla guida dell’azienda ha fatto crollare il valore delle azioni da circa 60 a 1,2 dollari e accumulato perdite per 82 miliardi di dollari nell’ultimo quadriennio.