Lezione numero uno: dopo i violenti scossoni dei mercati finanziari, l’economia è ancora alla ricerca del suo “new normal”. Ovvero di un fondo solido su cui impostare una ripresa che richiede, tra l’altro, un forte spirito di cooperazione internazionale. Lezione numero due: i mercati non si accontentano di promesse che non siano accompagnate da solidi impegni finanziari. Lezione numero tre: i tempi dell’emergenza non si conciliano con quelli della diplomazia e della politica, destinati a soccombere sotto i cieli della crisi.
Queste tre semplici regole servono a capire perché le Borse continuano a sgretolarsi senza soste, nonostante l’ampio sfoggio di sforzi diplomatici da parte delle cancellerie di mezzo pianeta. In passato, la conferenza stampa di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy avrebbe meritato ben altra accoglienza. I due i leader dei Paesi più importanti dell’Unione europea, del resto, hanno assunto solenni impegni davanti alle telecamere sul futuro dell’Europa.
Ma i mercati hanno dato un’interpretazione cinica del no a gli eurobond: né la Germania, né, soprattutto, la Francia hanno i mezzi e la volontà politica per far fronte a un attacco senza quartiere all’area euro. Come ha confessato lo stesso Sarkozy, un impegno di questo genere renderebbe assai facile l’attacco alla tripla A francese che comunque è già in atto, come dimostra la frana delle quotazioni di Société Générale, il ventre molle della grandeur finanziaria di Parigi, esposta sul fronte di Atene, Roma e di troppe incursioni nel mondo della finanza innovativa. Meglio, perciò, rinviare a un futuro indefinito il ricorso a un’emissione garantita dalle casse della Comunità.
Non è una posizione priva di senso (difficile spiegare all’opinione pubblica tedesca o parigina la convenienza a finanziare con i propri risparmi le uscite di Umberto Bossi), ma è comunque di corto respiro. La frenata del Pil tedesco nel secondo trimestre dimostra che l’economia di Berlino non può cullarsi nell’illusione di campare di solo export nei confronti di Pechino o del Sud America: la salute della Bmw o di Siemens dipende ancor più dalle finanze dei clienti italiani, spagnoli o francesi che non da quelli del Celeste Impero.
L’Europa, insomma, continua a dibattersi in una crisi di identità più culturale che economica. È evidente ai più che il problema principe riguarda l’indebitamento degli Stati sovrani, nessuno escluso (in cifre assolute i Bund tedeschi superano i Btp italiani). Ma nella storia dell’umanità sono rari gli esempi di uscita dalla crisi finanziaria di uno Stato solo grazie all’austerità e ai tagli. Fu la ricetta applicata dalla Destra storica alle Casse dell’esausto Regno d’Italia, a prezzo di sacrifici che ricordano da vicino la Cina della Rivoluzione Culturale piuttosto che l’Europa di oggi. Occorre, dunque, saper coniugare il rientro dal debito con una politica di sviluppo che comunque richiede investimenti. Facile a dirsi, difficile a farsi senza una politica di redistribuzione del reddito sia a livello di Paesi che di classi sociali.
Ci vorrebbe, insomma, una sorta di piano Marshall bis, come suggerisce una giovane economista italiana, Benedicta Marzinotto del centro Brueghel di Bruxelles. Ma, i capitali, ahimè, mancano. La regia politica in grado di metter in movimento la macchina in Grecia, Portogallo o, peggio ancora, nel Sud Italia, ancor di più.
Il piano Marshall, del resto, venne imposto a suo tempo dalla superpotenza americana a un’Europa affamata e desiderosa di riscatto economico. Oggi, nonostante la crisi, l’Europa non trasmette certo quest’immagine positiva: i disordini di Londra, maturati in quartieri “drogati” dall’assistenza sociale, così come l’ostilità di parte della Spagna al raduno mondiale della gioventù cattolica a Madrid sono la punta dell’iceberg di un Continente che sente di aver perso la leadership intellettuale e politica del pianeta.
L’America, dal canto suo, non ha certo le munizioni finanziarie per aiutare il resto del pianeta. Anzi, il vicepresidente Joe Biden, tanto per far piacere ai creditori cinesi, si è spinto oltre la soglia di non ritorno assicurando che, agli occhi di Washington, Taiwan fa parte dell’“unica” Cina. Non è la prima volta che la diplomazia americana usa l’arma del business per affrontare questioni politiche. Ma c’è una differenza: in passato (vedi l’acquisto dell’Alaska dagli zar piuttosto che della Louisiana da Napoleone) Washington staccava assegni. Oggi firma cambiali.
Intanto, le corporations accumulano più di mille miliardi di liquidità che non verranno investiti ma serviranno a M&A che serviranno a far salire le Borse, aumentare il valore delle stock options, rafforzare il patrimonio di una fetta sempre più ridotta di super ricchi. Ma il 16% degli americani è alla ricerca di un impiego stabile: roba da Grande Depressione.
Nel giro di poche settimane, la collera dei mercati ha piegato la politica a gesti che, in tempi normali, avrebbero richiesto anni. Vale per lo scacchiere internazionale, vale per l’Europa, vale per la piccola Italia dove troppi si illudono che la politica del muro di gomma sarà in grado ancora una volta di impedire un salto di qualità nella gestione dei conti pubblici e delle risorse private. Ma lo scossone non è ancora stato sufficiente. Facile prevedere, perciò, che l’instabilità durerà ancora.
Ma attenzione. Come ha appena detto il presidente della Fed di Dallas, “il nostro compito non è quello di far salire le Borse”. La politica monetaria estremamente permissiva di questi anni forse ha evitato il peggio, ma non ha messo le premesse per la ripresa. Forse è l’ora di pensare a qualcosa di più efficace che non la politica monetaria.