Nelle elezioni comunali a Napoli nel 1952 e nel 1956, Achille Lauro fece fare dai suoi agit-prop una campagna elettorale a tappeto, porta a porta, spingendo all’apoteosi il metodo del voto di scambio: ai potenziali elettori elargì banconote divise a metà, scarpe spaiate (il pezzo di banconota e la scarpa mancanti vennero consegnate rigorosamente solo dopo il voto) e pacchi di pasta. Conseguì circa 300.000 preferenze e senza “spin doctor” che gli spiegassero cosa fare.
Diciamo subito che Matteo Renzi non è come Lauro. Nel bene, perché certo non si sogna di praticare un simile, grezzo e diretto, voto di scambio, e anche la pessima figura fatta da un po’ di galoppini renziani napoletani che rimborsavano ai seggi il voto delle primarie va tutta al passivo degli interessati – servi sciocchi, più realisti del re – e non deve essere addebitata a lui. E nel male, perché Lauro – a modo suo – fu per Napoli un grande sindaco, ben più di quanto lo sia stato Renzi per Firenze.
Però, certo che questa uscita sui 500 milioni di euro in più per i poveri “se vince il sì al referendum” se la poteva proprio risparmiare. Invece ha detto proprio così. Insistendo nel rappresentare il referendum con una sacrosanta “purga” contro l’iper-politicizzazione della società italiana, ha testualmente detto che con le innovazioni costituzionali si risparmieranno 500 milioni di euro, e che questi soldi verranno aggiunti a quelli già stanziati per i sussidi contro la povertà.
Ebbene: innanzitutto, la storia – anzi la recentissima cronaca – insegna che non sempre i tagli alla politica fruttano i risparmi voluti. Eliminando le province abbiamo risparmiato, questo sì, gli appannaggi dei consiglieri eletti, ma il miliardo di risparmi totali promesso da Renzi, e già rivisto al ribasso a quota 500 milioni dall’Unione province italiane, si sta risolvendo paradossalmente in maggiori costi, perché molte Regioni, nell’implementare all’interno delle loro strutture quelle delle dissolte Provincie, stanno spendendo molto di più per equiparare gli inquadramenti del personale e trasferire competenze e attrezzature. Un autogol.
Ma anche ammesso che l’abolizione del Senato permetta allo Stato di risparmiare 500 milioni: è il caso di attribuire a essi questa destinazione piuttosto che un’altra? Si deve supporre che il governo farà comunque il massimo contro la povertà, a prescindere da questo o quell’introito straordinario; visto che c’è ancora tanto da spendere per la crescita economica, che non riparte; per i consumi, che non si riprendono; per le infrastrutture carenti; per le pensioni; eccetera eccetera.
Uno dei dissidenti renziani del Pd più combattivi, Miguel Gotor, ha parlato apertamente di “bufala dei 500 milioni da distribuire ai poveri”. Ma ammettiamo che questi risparmi maturino: non crede, Renzi, di dover moderare i toni della propaganda elettorale, magari verificando prima di tutto con chi all’interno della sua stessa squadra di governo ne sa più di lui come impiegarli al meglio?
In realtà, la battuta sui poveri – per infelice che sia stata – va letta nel quadro del riposizionamento che il premier si sta dando in vista di un referendum dall’esito chiaramente incerto che però, nei mesi scorsi, in preda a un’euforia egotica che solo la batosta delle elezioni amministrative perse malamente dal Pd ha moderato, Renzi aveva cavalcato come la sua sfida decisiva: “O lo vinco o me ne vado”, aveva ripetuto in mille salse. Probabilmente temendo di non vincere, e non essendo poi così convinto di dover nel caso lasciare, Renzi ha detto, finalmente, che anche lui ha sbagliato qualcosa: “ho sbagliato a dare dei messaggi, questo referendum non è il mio referendum, perché questa riforma ha un padre che si chiama Giorgio Napolitano. Ho fatto un errore a personalizzare troppo, bisogna dire agli italiani che non è la riforma di una persona, ma la riforma che serve all’Italia”.
E ai poveri italiani, sappiamo ora. A 200 mila dei quali, peraltro, il governo – parola, in questo caso, del ministro Poletti – si è impegnato già due mesi fa a distribuire l’anno prossimo 320 euro al mese: meglio che niente! A condizione che i beneficiati si impegnino a seguire una serie di progetti mirati all’inserimento nel mondo del lavoro.
Secondo la Caritas – che se ne intende – il bilancio del governo Renzi non è peggiore di quello dei governi precedenti, sulla lotta alla povertà, ma l’esecutivo “ha seguito una linea di sostanziale continuità con quelli che l’hanno preceduto: non ha, in altre parole, realizzato interventi significativi”. Li realizzi, dunque: ma a prescindere dall’esito del referendum, per favore.