Ieri ho cercato di smontare la bufala del Pil statunitense al 5% nel terzo trimestre di quest’anno, ma vi assicuro che di bufale che i grandi media vi propinano ogni giorno ne esistono a iosa. Come possono gli Usa crescere a quel ritmo se, dati del ministero dell’Energia alla mano, il consumo energetico medio è troppo basso per reggere un tasso simile? E poi, cosa ci dice che la ripresa innescata sia duratura, visto che al di là dei troppi trucchetti contabili del Dipartimento del Commercio, quasi tutti i posti di lavoro creati dal giugno 2009 negli Usa sono legati al boom dello shale oil, come ci dimostra il grafico a fondo pagina, visto che il grosso si concentra nei cinque Stati maggiori produttori, con il Texas che pesa da solo per il 40% del totale?
Stando a Goldman Sachs – e ho detto tutto – anche con il prezzo del barile a 70 dollari, oltre un 1 triliardo di dollari di spese nel settore petrolifero a livello globale – pari a 7,7 milioni di barili al giorno di produzione – sono a rischio e questo dato contempla solo il ciclo convenzionale, non include affatto il settore dello shale! E che dire poi del lato finanziario della questione, con i junk bonds energetici che pesano per il 15% di tutto il mercato junk Usa, circa 200 miliardi di dollari ma con le banche che sono esposte per 300 miliardi di dollari in prestiti diretti verso quel settore, alcune delle quali sono banche regionali o locali, come la Bok Financial in Oklahoma, il cui portafoglio vede i prestiti al settore pesare per il 19% del totale? Se i prezzi resteranno attorno a 55 dollari al barile, un terzo delle compagnie con rating B o CCC potrebbero essere incapace di onorare i propri debiti, stando a calcoli di Deutsche Bank: ma la previsione potrebbe essere ottimistica, visto che in Nord America i giacimenti di scisto sono già improduttivi sotto i 55 dollari al barile e il 50% del totale non riesce a generare ritorni a quota 50 dollari.
Se per caso poi si dovesse arrivare in area 40, cosa assai difficile, un collasso finanziario del settore in stile 2008 è tutt’altro che da escludere, visto che un gigante come Enron collassò in soli 24 giorni e che nell’ultima legge di budget Usa è presente un codicillo in base al quale le banche si lavano le mani per eventuali perdite su contratti derivati di un certo genere, mettendo il contribuente come salvatore di ultima istanza.
Non prendiamoci in giro con i titoloni stile Corriere della Sera, quel 5% è non solo fabbricato ad arte peggio dei bilanci della Parmalat, ma si basa quasi interamente su due cose, strettamente interconnesse: primo, il boom del settore shale che ha portato lavoro e produzione, secondo le condizioni di indebitamento a tasso pressoché zero garantite dalla Fed con i suoi cicli di Qe che hanno permesso quel boom in tempi e modi così rapidi. Come si può quindi parlare di crescita sostenuta e durevole se quel settore è già in crisi oggi, sia per il prezzo del petrolio che per l’eccesso di esplorazione e sfruttamento dei migliori giacimenti che quindi porterà con sé una diminuzione della produzione e un aumento dei costi nel breve-medio termine e se, come ci dicono, la Fed non solo non pomperà più liquidità ma anzi potrebbe alzare i tassi entro giugno? Balle, solo balle.
Esattamente come l’esaltazione keynesiana della politica della Bank of Japan, altro mito da sfatare. Ieri la Borsa di Tokyo ha infatti chiuso le contrattazioni in leggero rialzo seguendo le indicazioni macroeconomiche che segnalano un ulteriore rallentamento dell’inflazione giapponese, con l’indice Nikkei che ha guadagnato 10,2 punti (+0,1%) fermandosi a quota 17818,96 punti, portando l’aumento di questa settimana borsistica all’1,1%. Il mercato finanziario giapponese continua a essere supportato dalle aspettative di ulteriori miglioramenti economici nell’anno che sta per cominciare, sebbene restino alcune preoccupazioni rispetto ai livelli dell’export nipponico: i dati resi noti ieri sull’inflazione core di novembre mostrano una diminuzione al 0,7%, il livello più basso da più di un anno e ben al di sotto del target del 2% della Bank of Japan. Che successone l’Abenomics!
In compenso un risultato lo ha ottenuto, ovvero schiantare del tutto le dinamiche del mercato obbligazionario. Mentre infatti il mondo intero celebrava il Natale e la Cina evitava qualche default imminente, grazie alla decisione della Banca del Popolo di spedire a zero i tassi di riserva dei depositi non bancari, il Giappone si godeva le conseguenze della scelta di monetizzare al 100% tutte le emissioni lorde di bond sovrani, visto che il ministero delle Finanze ha non solo piazzato 22 miliardi di dollari di obbligazioni a due anni con rendimento negativo del -0,003%, primo caso di bond governativo non a breve termine che sconfina in quel territorio, ma ha anche visto il titolo a 10 anni prezzare uno yield dello 0,31%, record al ribasso dall’aprile 2013 (come si può notare nel grafico a fondo pagina) quando la Bank of Japan annunciò l’inizio del programma di stimolo. E attenzione, qui siamo alla follia pura: se infatti i rendimenti negativi sono ormai un classico sulla curva obbligazionaria nipponica, con i bill a 3 mesi e un anno che restano sotto quel livello da gennaio, il continuo aumento di prezzo e calo di rendimento su altri settori della curva ci confermano soltanto una cosa, ovvero la carenza a livello globale di collaterale di alta qualità (un qualcosa che nel 2015 peggiorerà per un ulteriore 20%) dovuta alla scelta delle banche centrali di inondare i mercati, potenziale detonatore in negativo della volontà attuale delle stesse di portare a un aumento artificiale dei rendimenti per “confermare” a livello globale che una reflazione è già in atto.
Questo perché il Giappone non è il solo caso: lo yield del Bund a due anni è rimasto negativo da agosto in poi, mentre per quanto riguarda il debito svizzero il rendimento è negativo anche sulla note a 5 anni. Ecco gli effetti, gli unici, della politica della Bank of Japan sui mercati: distorsione. Il perché è presto detto, visto che la Banca centrale nipponica con la sua espansione del programma di acquisti fino alla monetizzazione del 100% delle emissione lorde del 2015 ha innescato anche un’altra dinamica: Tokyo sta infatti comprando non solo i propri bond, ma anche quelli già esistenti sul mercato privato, di fatto permettendo ai soggetti da cui acquista titoli l’operatività sul mercato verso altre securities. Ciò, garantisce liquidità attraverso l’acquisto di propri titoli di debito e con quella liquidità i soggetti privati possono comprare altro.
Insomma, Tokyo sta comprando tutto, in maniera diretta o indiretta, basti vedere il dato in base al quale i fondi pensione nipponici nel terzo trimestre di quest’anno hanno acquistato securities non giapponesi per 18,6 miliardi di dollari, il dato maggiore dal 1998 e sette volte tanto rispetto al secondo trimestre. E cosa ha permesso loro di fare questo? Il fatto di aver venduto 2,85 triliardi di yen di bond nipponici nei tre mesi conclusisi il 30 settembre, un massimo storico e il doppio di quanto scaricato nel secondo trimestre. E a chi hanno venduto? Ma alla Bank of Japan, ovviamente! La quale, così facendo, non solo ha acquistato ma ha anche ucciso il mercato, perché continua ad alzare l’asticella della domanda di prezzo per i bond governativi lungo tutta la curva, schiantando i rendimenti: insomma, compra solo lei e a ogni prezzo, quindi se ancora esistesse una logica di mark-to-market oggi nessuno saprebbe in realtà quale sia il reale valore di quella carta, non avendo essa di fatto un mercato privato e libero ma solo statale e monopolistico.
Capite ora perché tutti, da Krugman a Goldman Sachs, tifano per l’Abenomics e anzi chiedono sempre maggiori implementazioni degli acquisti? Perché, indirettamente, la Bank of Japan sta comprando anche securities straniere per un ammontare record, triliardi di acquisti di titoli: una manna per chi vuole vincere facile. Quindi, in parole povere, fino a quando i tassi giapponesi continueranno a scendere grazie agli acquisti della Bank of Japan, le equities a livello globale continueranno a salire, sfondando record dopo record: siamo alla sperimentazione faustiana di un mercato globalizzato di sistema monetario in cui nulla più conta, tanto meno i fondamentali, se non l’operato delle banche centrali.
Così facendo però la Bank of Japan sta giocando con il fuoco: se infatti essere bullish sul Giappone è una moda da almeno due anni, con gli investitori esteri che pesano per il 60% del trading sulla Tokyo Stock Exchange, a oggi l’obiettivo di alzare il tasso di inflazione non è affatto raggiunto, anzi. Ma se questo invece, proprio a causa della politica della Bank of Japan, dovesse accadere in maniera troppo repentina, a cosa andremmo incontro? A un aumento drastico dei tassi giapponesi che inneschi una crisi fiscale, il tutto in un contesto di ratio debito/Pil che per Tokyo parla la lingua del 250%: capito perché anche il decennale nipponico ha il rendimento ai minimi? Bufale amici miei, bufale ovunque. O mezze verità.
Come quella che vede il rublo aver guadagnato il 34% nelle ultime due settimane, di fatto facendo evaporare la drammatica erosione del tasso di cambio sul dollaro vissuta a dicembre e facendo gridare molti alla vittoria di Vladimir Putin contro l’attacco speculativo occidentale. Le cifre sono vere, peccato ne manchino altre: ovvero il fatto che per raggiungere questo mero risultato di quasi stabilizzazione, nella settimana terminata il 19 dicembre la Banca centrale russa ha bruciato riserve pari a 15,7 miliardi di dollari, il calo settimanale più netto dal giugno 2009, tale da lasciare il numero finale di quanto in cassa sotto quota 400 miliardi di dollari. Certo, sempre un bell’ammontare, tanto più che i cds parlano implicitamente di una possibilità di default per il prossimo anno solo al 5%, contro invece il 25% di chi vede una ripresa ma per essere stata solo una battaglia, e non la guerra, vincerla è costata parecchio. E la parola fine non è affatto scritta.
Ma si sa, certe verità sono scomode da dire. Vale anche per la valuta ucraina: sapete quanto è costato mantenere stabile il suo tasso di cambio fino al voto per la rielezione del governo fantoccio di Kiev, facendo credere alla gente che ci si poteva fidare dei pupazzi manovrati dal Dipartimento di Stato Usa? Per l’esattezza 3,8 miliardi di dollari di riserve bruciate per stabilizzare artificialmente il cambio, salvo poi tornare subito a crollare, come ci dimostra questo grafico. Ma tranquilli, in questo mondo eterodiretto, da finanza e banche centrali, ci penserà il Fmi a indennizzare i bravi burattini ucraini. Aprite gli occhi.