«Alla base delle principali questioni che stanno interrogando il Paese in questo particolare momento storico c’è, a mio parere, un problema culturale, prima ancora che politico o economico». È questo il filo rosso, secondo Piero Ostellino, che lega la crisi economica alle affannose manovre per far tornare i conti e per condividere tagli e sacrifici, fino ad arrivare alla complicata trattativa della Fiat a Pomigliano. «Paghiamo il prezzo di una cultura di matrice cattolico-dossettiana e comunista alla base della nostra Costituzione, liquidativa delle libertà economiche, fortemente anti-individualistica e illiberale. Dietro una parvenza di solidarismo si nasconde però una profonda vocazione totalitaria tipica di quella cultura d’origine. I nostri guai, a mio parere, nascono da lì».
Il Presidente del Consiglio poco tempo fa ha definito la Costituzione “un inferno”. Non rischia di diventare il capro espiatorio dei problemi del Paese?
Non penso proprio. Dopo averla studiata a fondo sono arrivato a una conclusione: è una Costituzione programmatica, tipica delle costituzioni totalitarie del ‘900. A differenza di quelle procedurali e liberali, non si limita a fissare le regole del gioco, ma decide pesantemente come il gioco si debba svolgere.
È giunto il momento di mettergli mano o è ancora “intoccabile”?
La Costituzione non dovrebbe esserlo per definizione. Thomas Jefferson diceva che ogni generazione ha il diritto di cambiarla. Nel nostro Paese, invece, viene considerata intoccabile da tutti quelli che campano dello status quo: sindacati che non imparano dalla storia, docenti di diritto costituzionale che hanno costruito la loro fortuna su questa presunta “intoccabilità”, politici e manager con una spiccata vocazione autoritaria che credono in una società eterodiretta, senza alcuno spazio per la libertà individuale. In poche parole, quanto di peggio esista nella cultura politica di questo Paese. Chiamiamoli con il loro nome: reazionari contrari alle libertà individuali, legati all’ancien régime e quindi anacronistici.
Alcuni sindacati, a cui ha fatto riferimento, pongono un problema di incostituzionalità anche riguardo all’accordo proposto dalla Fiat a Pomigliano…
Bisognerebbe capire, a questo punto, se esistono davvero i termini d’incostituzionalità, d’altra parte potremmo iniziare ad ammettere che è proprio la Costituzione a lasciare spazio a molte ambiguità. Come dicevo prima, è figlia del solidarismo cattolico dei Dossetti, dei Fanfani e dei comunisti alla Togliatti, con l’aggravante di essere stata scritta quando ancora si guardava al comunismo come al superamento del capitalismo. Non stiamo a dilungarci su come sia andata a finire, il problema è che siamo ancora fermi lì, a una Carta che da un lato riconosce alcuni principi liberali, dall’altra li condiziona alle astrazioni ideologiche tipiche di quel mondo e di quel tempo.
Tornando all’accordo, secondo Tito Boeri è inevitabile e necessario, ma rende ancora più indispensabile una seria riforma delle regole di contrattazione e di rappresentanza sindacale. Lei è d’accordo?
È un problema da risolvere, ma in un secondo momento. Prima di tutto bisogna porre i lavoratori di fronte al nodo vero: il rapporto di causa ed effetto tra costi e ricavi in un processo capitalistico. Se questo non si comprende si confondono ruoli e funzioni, doveri e diritti. Il movimento operaio e la sinistra dovrebbero iniziare a fare i conti con la propria cultura politica o almeno con l’osservazione dei dati e della realtà.
Cosa intende?
Tutti sanno che la produttività degli stabilimenti Fiat in Italia è più bassa rispetto a quella di Polonia o Brasile. Nel nostro Paese, infatti, si producono meno automobili con un numero di lavoratori maggiore. Se non si capisce il nesso elementare tra costi e ricavi non si può capire che siamo davanti a un bivio: o si alza la produttività o la Fiat sarà costretta a spostare lo stabilimento. Ecco perché la proposta dell’azienda torinese, a mio parere, è ragionevole. Purtroppo però la Fiom paga lo scotto di questo ritardo culturale e non sembra aver compreso ancora il processo di accumulazione capitalistico.
A sinistra il dibattito si è aperto, secondo Bertinotti la sinistra stessa, moderata o radicale che sia, sarebbe “morta”, lontana dalla Fiom e da Pomigliano e forse troppo impegnata con i post-it contro il ddl intercettazioni…
È la constatazione di uno stato di smarrimento che la sinistra italiana vive da quando ha perso il proprio punto di riferimento culturale, la rivoluzione. Dopo aver capito che non è un obiettivo perseguibile in un paese occidentale, democratico e di mercato ha perso anche il suo riferimento storico, l’Unione sovietica, l’incarnazione del “successo” storico della rivoluzione. La crisi della socialdemocrazia non gli ha permesso poi di cambiare pelle. Il sistema era ormai malato di un welfare portato alle estreme conseguenze, di un eccesso di tassazione e di spesa pubblica.
Ad oggi, la sinistra non ha un referente culturale, è incapace di elaborare una nuova cultura politica autonoma e sembra ancora vittima del suo vizio d’origine, del suo peccato originale.
Quale?
Il fatto di essere fondata su posizioni massimaliste come la palingenesi rivoluzionaria, il cambiamento della società, l’illusione dell’uomo etico, buono e disinteressato, che nella realtà però non esiste. Il ritardo è notevole dato che nel 1651 se n’era già accorto Hobbes, che nel “Leviatano” risolveva l’homo homini lupus affidando il comando al despota, mentre dopo di lui Locke sceglieva la strada del consenso e del processo democratico.
A proposito della crisi di un modello esasperato di welfare a cui faceva riferimento prima, l’Europa oggi chiede a tutti gli stati delle pesanti manovre correttive per evitare il fallimento…
Lo stato sociale, che è la forma dello stato moderno, è entrato in crisi: da un lato spende più di quello che potrebbe, dall’altro impone una tassazione al di là di ciò che dovrebbe, riducendo così la libertà dei cittadini. È interessante però notare che ancora una volta per risolvere i problemi che abbiamo ignorato per anni siamo costretti ad aggrapparci a un vincolo esterno. Un modo di procedere che però non è esente da rischi.
A cosa si riferisce?
L’Europa ha dimostrato di funzionare se gli stati riescono a risolvere i propri problemi. Se lo stato moderno entra però in una crisi così profonda, il rischio di affossare l’Europa c’è, soprattutto se ci accorgiamo di averla costruita con i difetti dello stato moderno stesso: centralismo, burocrazia e verticismo.
A partire da queste premesse che scenari si aprono secondo lei?
Gli stati nazionali usciranno dalla crisi con gravi difficoltà, mentre l’illusione di uno stato europeo sovranazionale in grado di difenderci da un mondo dove non si fanno più guerre per conquistare territori e fare affari, ma dove la finanza scavalca bellamente i confini nazionali, si è rivelata illusoria.
Secondo lei, come sta rispondendo l’Italia alle richieste dell’Europa?
Quando si operano tagli indiscriminati, così come quando si elargiscono sussidi a pioggia non si realizza giustizia sociale, ma si penalizzano le regioni virtuose. Ecco perché condivido la protesta dei governatori. Io sarei addirittura più deciso di loro: le regioni non virtuose, quelle che, per intenderci, non sono nemmeno in grado di fornire il bilancio della sanità, devono essere commissariate. Lo stato centrale su questo deve essere inflessibile all’interno di un quadro di sussidiarietà e federalismo fiscale. Non può esserci libertà senza responsabilità.
Da ultimo, lei ha sottolineato molti aspetti di una crisi culturale di fondo. Inevitabile chiederle se secondo lei saremo in grado di uscirne e come.
Confesso di non essere molto ottimista. Per uscire da questa crisi servirebbe una “rivoluzione culturale”. Le giovani generazioni non hanno mai conosciuto il liberalismo, la democrazia liberale, il merito. Il riscatto può partire da loro e passerà sicuramente dalla scuola. Per ora ognuno sembra portare l’acqua al suo mulino sulla base di un’idea di democrazia del tutto personale o, al massimo, corporativa.
(Carlo Melato)