Ma le avete lette le offerte primaverili delle due più grandi compagnie aeree low-cost che popolano i cieli e gli aeroporti italiani? Le offerte di Ryanair e di Easyjet? Ecco, se non le avete viste andatevele a vedere, noi non le riassumiamo perché diventerebbe pubblicità indiretta, e davvero non ce n’è bisogno, con tutto il seguito che le due società già riscuotono presso il grande pubblico. Certo è, però, che di fronte a due aziende che offrono – si dovrebbe dire: regalano – centomila biglietti dai prezzi irrisori, fin dai 5 euro di soglia minima, fino alla fine di maggio anche su rotte di pregio, quale risposta può mai essere escogitata da un’azienda tradizionale com’è l’Alitalia?
E d’altronde, non avendoci pensato per tempo, non essendosi attrezzati per tempo, come trasformare Alitalia, oggi, in un’azienda capace di competere con simili mostri del risparmio? Significa falcidiare gli organici, dimezzare o quasi gli stipendi di quasi tutti i ruoli aziendali, moltiplicare la frequenza di utilizzo degli aerei. Significa in una parola cambiare il dna dell’azienda, farne qualcosa di completamente diverso.
D’altronde i dati, i dati ufficiali, sono impietosi. Secondo i consuntivi dell’Enac – l’ente nazionale per l’aviazione civile – nel 2015 c’era già stato il sorpasso della Ryanair su Alitalia, con 29,7 milioni di passeggeri contro 22,9. E nel 2016 lo “spread” a vantaggio del carrozzone volante di Michael O’ Leary si è allargato: 32,61 milioni di passeggeri contro i 23,10. A livello mondiale, i passeggeri sono 100 milioni, per gli aerei giallo-blu. Che volano con 11 mila dipendenti, contro i quasi 13 mila (per ora) di Alitalia. Che guadagnano, a seconda delle mansioni, anche il 40% in più. A confronto, si direbbe che Alitalia perda ancora pochi quattrini.
Non che le low cost non abbiano pecche: le hanno eccome. Fanno pagare come extra quasi tutto. La scelta del posto, il bagaglietto a mano in più, la fila prioritaria. Ryanair farcisce “l’esperienza del volo”, come la chiamerebbero gli uomini di marketing, con strani gadget insignificanti come lo squillo di tromba all’atterraggio. Spesso gli aerei sono veramente troppo caldi o troppo freddi o poco puliti. Ma chi se ne frega, dice il pubblico, gettonando la compagnia: vola, e a poco prezzo.
Negli anni Sessanta Alitalia era la terza compagnia aerea in Europa e la settima del mondo. Cosa l’è successo? Semplice: si è seduta sugli allori aziendali, e la politica ha cominciato a usarla come un bancomat, farcendola di persone in sovrannumero, ma soprattutto incompetente e quindi due volte dannose, per il fatto di costare e di far danno. Poi le periodiche ristrutturazioni inconcludenti, lo stillicidio delle perdite, una stagione brillante nel ’96-’98 con Domenico Cempella e un piano strategico forse salvifico con l’idea di fondersi con Klm, silurata però sul più bello dalla politica. Fino al precipizio e al sostanziale fallimento, sventato, in parte, dallo Stato e dai “capitani coraggiosi”, con l’aiuto e i soldi di Banca Intesa; e ancora l’intervento degli arabi di Etihad, e il loro attuale fiduciario al vertice operativo della compagnia, Cramer Ball, con un ennesimo piano di ristrutturazione 2017-2021 che dovrebbe reggersi su un miliardo di euro di tagli, e fin qui ci può anche stare, con una meno credibile crescita dei ricavi del 30% contestuale a un taglio di 20 aerei di medio raggio, che comporta l’abbandono delle rotte nazionali. Come riscattarsi se si cede mercato? Anche nelle poche tratte dove i prezzi non sono tutto?
E quindi? Quindi è difficile trarre conclusioni senza passare per profeti di sventura. Ma l’osservazione pluridecennale dei fenomeni del mercato qualcosa deve pur insegnarla. Ci sono momenti nella vita delle aziende in cui si ha più valore da morti che da vivi. In cui tutto concorre a spingere i giganti malati verso una stessa fine comune, il fallimento. Dal quale, e solo da, quale, a volte rinascono i pezzi sani. Non è un auspicio, figuriamoci, e non vuole essere neanche una previsione: ma un avvertimento la storia ce lo trasmette. Di questo passo, le aziende chiudono bottega.