Chi si aspettava dichiarazioni sul futuro della politica monetaria di Fed e Bce ieri è rimasto deluso; gli interventi di Janet Yellen e di Mario Draghi all’annuale conferenza di Jackson Hole non hanno quasi toccato tassi di interesse e dintorni. Sono interventi però, soprattutto quello di Draghi, che letti nel contesto attuale diventano di importanza capitale. La Presidente della Fed ha centrato il suo discorso sulla risposta alla crisi finanziaria del 2008, con i miglioramenti alla regolamentazione, celebrando in un certo senso lo scampato pericolo nella crisi peggiore dal 1929. I mercati non si aspettavano strette monetarie e il discorso è stato percepito come una conferma che la Fed andrà con i piedi di piombo nella normalizzazione della politica monetaria. Risultato: il dollaro si è svalutato contro l’euro sfondando i minimi degli ultimi due anni e mezzo. Nessun accenno in un discorso sembrato persino d’addio ai mal di pancia clamorosi della società americana per un’economia che non è quella che si legge sui giornali.
Ma è il discorso di Draghi che meriterebbe due enciclopedie di riflessioni. È stato completamente centrato sulla necessità di conservare il libero commercio tra nazioni e aree economiche. Se n’è celebrata la necessità come motore dell’economia e della crescita. Sappiamo che questo argomento è al centro delle discussioni tra Stati Uniti, Europa e Cina. Trump, con tutti i suoi evidenti limiti, è espressione di un malessere che “arriva” da ampi strati della società americana; sia dalle società che dai lavoratori. La questione è semplice: il deficit commerciale degli Stati Uniti, più importazioni che esportazioni, alla lunga importa in America disoccupazione e peggiori condizioni di lavoro. La vittoria di Trump non è spiegabile al di fuori di questa dinamica che ha generato la protesta che ha punito i democratici colpevoli di essersi dimenticati dei “poveri” americani, bianchi e neri.
Ma Draghi, nell’anno di grazia 2017, non può far finta che il libero commercio abbia delle controindicazioni evidenti. Il libero commercio funziona se tutti rispettano le stesse regole o quanto meno alcune regole base; non si può competere con la Cina in un regime di libero commercio perché la Cina è una dittatura comunista in cui i diritti dei lavoratori non esistono e in cui spesso lo Stato interviene a piè di lista per sostenere le sue imprese e in cui quelle straniere non possono entrare. In questo contesto succede che i posti di lavoro decentemente pagati e con minimi diritti negli Stati Uniti sono stati persi e sono diventati posti di lavoro in Cina con tutto quello che ne consegue. Dopo un paio di decenni e passa di questa solfa gli americani hanno scaricato i “politici” buttandosi nelle braccia di uno che due anni prima faceva reality show. La questione come si capisce è decisiva.
Draghi non ha saltato questo passaggio, ma si è occupato di come si possa salvare il libero commercio evitando che diventi “unfair”, scorretto. Scorretto, aggiungiamo noi, nella misura in cui un imprenditore americano o italiano deve dare dei diritti, pagandoli, mentre uno cinese no. Draghi si è perfino occupato della scorrettezza di chi manipola il tasso di cambio. Un’accusa che l’America ha rivolto sia alla Cina che all’Europa e in particolare alla Germania, colpevole di usare a proprio uso e consumo le istituzioni europee, euro in primis, per proteggere le proprie esportazioni. Se ci fosse il marco per la Germania sarebbero grossi guai.
La ricetta di Draghi è una “cooperazione multilaterale” in cui ci si accordi per fare in modo che il libero commercio non diventi uno strumento in cui le economie degli stati senza diritti si alimentano a spese di quelli con i diritti. Volete sapere l’esempio virtuoso usato per difendere questa possibilità? L’euro e l’Europa. Un sistema insostenibile, senza redistribuzione interna, con una banca centrale che deve fare la politica monetaria per economie diversissime. Draghi cita perfino l’uniformazione delle regole europee, una delle ricette per un libero scambio “onesto”, dimenticandosi che le regole europee esistono solo sulla carta, ma in pratica vengono ignorate dagli stati forti e inflitte a quelli deboli. Draghi aggiunge che il sistema europeo, così virtuoso, non è facilmente replicabile perché basato “su una struttura politica avanzata che aiuta a riconciliare la cooperazione multilaterale con il controllo democratico”. Ognuno si metta una mano sulla coscienza e si chieda se in Europa il voto di un greco vale come quello di un tedesco e se i diritti e le richieste dei greci vengono rispettati come quelli dei tedeschi. La mancanza di qualsiasi democrazia sostanziale nelle istituzioni europee è stata notata a destra e a sinistra.
Se l’Europa è l’esempio di una cooperazione multilaterale che funziona qualcuno dovrebbe spiegarci come sia possibile che in tutti i Paesi europei, tranne guarda caso la Germania, i partiti “populisti” siano arrivati a queste percentuali e perché così tanti economisti predicano, prima o poi, non solo la fine dell’euro, ma danni maggiori più si prolunga l’esperimento. Alla Germania il libero scambio piace tantissimo perché ha potuto espandere la sua economia a tassi incredibili senza spendere un euro in Europa né per i disoccupati italiani, né per le sue infrastrutture. La Germania ha prosperato grazie alle politiche degli altri Paesi che negava invece in Europa infliggendo l’austerity ai suoi concorrenti, in primis agli italiani; alla faccia delle regole uguali per tutti, della democrazia e della cooperazione che finisce il secondo in cui un tedesco deve sborsare un euro per un terremoto in Italia o per un’invasione di migranti. La Francia invece trovava il suo spazio in un’applicazione asimmetrica delle regole del libero scambio per cui qualsiasi impresa francese può comprare qualsiasi cosa in Italia mentre il contrario non è possibile. L’Europa è l’esempio lampante di come la cooperazione multilaterale di cui si parla oggi non sia la soluzione, ma la foglia di fico con cui i Paesi forti o “disonesti” fregano gli altri.
Gli Stati Uniti si sono stufati di farsi fregare da tedeschi e cinesi e hanno cominciando spedendo l’euro dollaro da 1.05 a 1.2. Se non bastasse passeranno ai dazi, altrimenti gli scontri di queste ultime settimane sembreranno un gioco in una società in cui le disuguaglianze, statisticamente, non sono mai state così grandi. Il problema non sono solo le tasse, ma che Apple & Co fanno profitti da capogiro per un ristretto numero di persone avvalendosi del libero scambio nell’importazione e nell’esportazione mentre tutti gli altri, a Detroit e a Chicago, perdono il lavoro o lavorano da McDonald’s. Ci piacerebbe tanto se l’Italia potesse fare quello che fanno gli americani “contro” tedeschi e francesi, ma di tutto questo neanche si parla se non come di pericolosi retrogradi. Poi però ci si scandalizza del successo di Trump e per evitare di affrontare il problema e ammettere gli errori si dà la colpa ai russi e alle “fake news”.