“Come potete chiedere alla Cina di rispettare gli accordi internazionali se voi siete i primi a non farlo?”. Così, secondo Reuters, il ministro francese dell’Economia si è rivolto al segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin nel primo giorno del vertice dei ministri finanziari del G7, il giorno dopo la decisione americana di procedere al rialzo dei tassi su acciaio e alluminio in arrivo dall’Unione europea, oltre che dal Canada e dal Messico. Una domanda retorica, alla luce dei fatti. È ormai evidente che l’amministrazione Usa non ha alcuna intenzione di rispettare l’architettura degli accordi internazionali così come sono maturati nel corso degli ultimi 70 anni. Alla logica dei trattati multilaterali, Donald Trump, intende far seguire la stagione degli accordi Paese per Paese, senza far alcuna preferenza per gli interlocutori, che siano alleati politici e militari oppure nemici di vecchia data.
E così, incurante delle proteste europee e delle scontate ritorsioni su jeans, bourbon, l’immancabile Harley Davidson, l’amministrazione Usa guarda a Pechino dove è in missione Wilbur Ross, il miliardario di New York cui Trump ha affidato la gestione dei commerci. Non sarà un confronto sui massimi sistemi: la Cina, tra caute promesse e ancor più prudenti aperture alle richieste americane, vuole risolvere la partita Zte, cioè il colosso delle apparecchiature tlc escluso dalle forniture Usa, componenti necessarie per i suoi prodotti, che rischia una multa da 1,7 miliardi di dollari. Per tutta risposta la Cina, messa sotto accusa per il mancato rispetto della proprietà intellettuale, ha fatto sapere che nei prossimi giorni si chiuderà l’istruttoria antitrust sulla fusione tra due giganti dei chip, Qualcomm e Nvidia, società Usa che hanno bisogno del via libera cinese per poter operare sul mercato globale.
Il braccio di ferro sui commerci globali permette di guardare alle difficoltà della casa europea e al conflitto tra Nord e Sud del Vecchio Continente con una prospettiva nuova. E, in particolare, di valutare gli spazi potenziali del nostro nuovo esecutivo per ottenere un cambio di rotta della politica di Bruxelles, vista dalle nostre parti come se fosse un tutt’uno, con un volto unico e un’identità definita, laddove risulta essere un patchwork non sempre riuscito. In particolare:
1) Alla vigilia del vertice europeo di fine mese, l’Ue è in condizioni di particolare debolezza. Pemane la più assoluta incertezza e ambiguità sul fronte della Brexit. Si allargano le distanze tra gli Usa e l’Europa, sempre più divisa. La Francia è per la linea dura, decisa tra l’altro a non perdere le posizioni di vantaggio conseguite in Iran. La Germania, spaventata dal possibile stop all’import Usa delle auto tedesche, assume posizioni da colomba. La strategia di Trump contro l’Ue, insomma, sta producendo i primi frutti.
2) L’incapacità di sviluppare una politica comune nei confronti degli Stati Uniti è il riflesso delle difficoltà che incontra in generale la costruzione europea: l’Europa mediterranea, a caccia di capitali, e i Paesi del Nord, solidamente ancorati a una politica deflazionista sono sempre più divisi. I Paesi dell’Est scalpitano, anche perché si profila un robusto taglio dei contributi di Bruxelles.
3) In questo contesto, Emmanuel Macron stenta a svolgere il ruolo di grande tessitore che si è ritagliato come mediatore tra le varie anime dell’Europa. Intanto la Germania non è certo il Moloch dipinto dalla retorica elettorale nostrana. È un Paese assai meno solido, con una Merkel indebolita, la destra xenofoba di Afd che ha superato la Spd nei sondaggi ed è ormai il secondo partito, facendo tesoro della campagna capillare nei supermercati e nelle scuole contro gli stanziamenti (100 miliardi di euro) a favore dell’immigrazione.
4) In questo quadro un’Italia che dovesse lasciare l’euro e facesse schizzare quello che resta a 1.50 contro dollaro, capiterebbe in un pessimo momento e costringerebbe la Bce a riprendere il Qe. La minaccia, per ora accantonata, è “la pistola alla tempia” nelle mani dei nostri sovranisti che, salvo poche eccezioni, non sembrano intenzionati ad andare fino in fondo: l’arma di dissuasione monetaria, come il nucleare, funziona solo se non si schiaccia il bottone.
5) Ma il rischio è alto, vista la debolezza delle leadership europee, avviluppate in problemi interni sempre più complicati. Le élites tedesche sanno che non si può tenere insieme l’Europa solo con la paura e sarebbero disposte a qualche concessione, ma i politici hanno ben chiaro che qualunque cedimento comporterebbe la non rielezione in Parlamento. Anche la Bce deve dosare bene lo spread, mettere paura, ma evitare di portare i nostri tassi al livello di avvitamento irreversibile. Non, quindi, un livello sempre più alto, ma una volatilità elevata intorno a un punto medio. Quanto alla fine del Qe, per ora sarà sufficiente lasciare tutto nel vago.
Il quadro, insomma, offre qualche chances al nuovo governo. Ma le pallottole sono poche, non dimentichiamolo.