Oltre a quanto già detto sulla Cina, c’è molto di peggio all’orizzonte. In dicembre, il report sull’economia cinese della China Beige Book International di New York portò con sé delle realtà poco piacevoli: «Le revenues da vendite interne, i volumi, la produzione, i prezzi, i profitti, la concessione di credito e il CapEx sono tutti più deboli di tre mesi fa». E ora, cosa dice il nuovo report? Nessun miglioramento in vista, anzi, l’export è crollato del 20% in termini di yuan reali il mese scorso e del 25% in dollari, la terza peggior lettura della storia. Ma c’è dell’altro: «Solo il 33% delle aziende hanno registrato un aumento del CapEx nel primo trimestre, il dato più debole da cinque anni a questa parte, quando è cominciato il nostro tracciamento del dato. La percentuale di aziende che hanno visto un aumento delle spese per investimenti fissi è scesa del 40% dal secondo trimestre del 2014». E parliamo di una tracciatura che riguarda 2200 aziende e 160 banche, dalla quale emerge il dato più preoccupante: le assunzioni sono collassate al minimo da quattro anni, un vero incubo per il Partito comunista che tutto può permettersi tranne un’ondata di disoccupazione.
«I nostri dati dicono che le aziende prima hanno cominciato a non prendere a prestito denaro, poi hanno tagliato le spese e ora hanno smesso di assumere», conclude il report. E non si tratta di cosa da poco, perché la grande sfida della Cina è proprio la gestione della ristrutturazione o della chiusura di aziende a controllo statale completamente insolventi che rischiano però di creare un esercito di disoccupati: il vero “cigno nero” cinese. E gli scioperi contro i licenziamenti o per i mancati pagamenti degli stipendi sono già in atto, sia nelle miniere di carbone del Nord che nelle città come Shuangyashan, dove ha sede il quartier generale della Longmay Mining Holding Group, la più grande azienda carbonifera del Nord-Est cinese.
Il grafico a fondo pagina mette la questione in prospettiva: il disagio sociale dei lavoratori cinesi è sempre crescente e potrebbe raggiungere picchi che il governo sarebbe in grado di gestire solo con la violenza, come sua tradizione fin dalle proteste di piazza Tienanmen. Non a caso, sul finire di marzo il Comitato centrale del Partito e il Consiglio di Stato hanno avvisato i funzionari di Stato che verranno licenziati in tronco se non riusciranno a controllare le tensioni sociali, facendo espresso riferimento proprio alla violenze scoppiate a Shuangyashan. Nel suo servizio al riguardo, il Wall Street Journal ha sottolineato che «i capi del Partito hanno un compito difficile, visto che nei prossimi cinque anni dovranno abbattere milioni di tonnellate di capacità industriale che sta rendendo inefficiente l’economia. Il governo ha promesso di compiere questa ristrutturazione senza licenziamenti di massa e per chi resterà senza occupazione ci sarà l’assistenza statale».
Davvero è possibile? Nel suo ultimo report sull’economia cinese, Markit non solo confermava il deterioramento dell’indice manifatturiero Pmi, ma notava anche che «il numero degli impiegati è calato al livello più netto dal gennaio 2009 nel corso del mese di febbraio». Dopodiché è stata la Reuters a confermare che la Cina, nei prossimi due-tre anni, affronterà una vera e propria ondata di disoccupazione, visto che saranno dai 5 ai 6 milioni i dipendenti statali che verranno licenziati. Ed evitare proteste costerà a Pechino, visto che si stima che solo per coprire i licenziamenti nel settore dell’acciaio e del carbone, verranno spesi 150 miliardi di yuan (23 miliardi di dollari) nell’arco dei prossimi 2-3 anni. Peccato che per la Reuters, «quel numero è stato comunicato e confermato dal governo ma la nostra stima di spesa va nel range degli 11 trilioni di yuan in su».
Senza contare che oltre ai costi sociali della disoccupazione, al conto si unirà anche la gestione del debito lasciato in eredità da quelle aziende zombie allo Stato. Insomma, volendo porre la cosa in prospettiva e prendendo per buoni i 5-6 milioni di licenziamenti in vista, parliamo di un sesto dei 37 milioni di lavoratori del settore statale che resteranno a casa, un comparto che pesa per il 40% della produzione industriale e per metà del credito bancario. L’ultima volta che la Cina si lanciò in una grande ristrutturazione del comparto statale fu nel quinquennio 1998-2003, quando i licenziamenti furono 28 milioni e il costo per il governo fu di 73,1 miliardi di yuan (11,2 miliardi di dollari) in fondi di solidarietà e ricollocamento.
Ma c’è un’altra variabile da tenere conto, quando si parla della transizione del mondo del lavoro in un Paese come la Cina: il livello di robotizzazione che andrà a impattare sulle dinamiche occupazionali e sulla società stessa. Tra il 2015 e il 2018 saranno 1,3 milioni i robot industriali che saranno impiantati e questo raddoppierà il loro numero in ruolo attivo a livello globale. E se molti di questi robot sono utilizzati nel settore automotive e in quello elettronico, uno studio pubblicato dall’azienda di consulenza McKinsey & Co. dimostra come i lavori che potenzialmente vedrebbero robot al posto degli uomini sono molti più di quanto si pensi e non solo in settori poco pagati e poco specializzati. Lo studio ha preso in esame quasi 800 differenti occupazioni negli Stati Uniti, dagli amministratori delegati ai lavoratori nei fast-food. All’interno di queste figure sono state trovate 2mila attività lavorative individuali e sono state confrontate con 18 differenti idoneità che possono essere potenzialmente automatizzate. Bene, dall’analisi è emerso che il 45% di attività lavorative che rappresentano 2 triliardi di dollari in salari potrebbero già essere automatizzate oggi con la tecnologia esistente, mentre un ulteriore 13% potrebbe esserlo se le tecnologie utilizzate per capire e processare il linguaggio umano fossero portate a un livello umano di competenza medio.
Negli Usa, tre milioni di lavoratori nei fast-food hanno una potenziale di automazione del 74%, mentre gli autisti di mezzi pesanti sono al 69% di automazione potenziale, ma a far riflettere è il dato di medici (23%), infermieri (29%) e amministratori delegati (25%). Di più, quasi la metà dei farmacisti (47%) potrebbe essere sostituito da una pharma-robot e addirittura il 72% delle attività di pilotaggio commerciale potrebbero essere compiute tramite computer. La sfida, come vedete, non è enorme. È semplicemente epocale. E se la scelta cinese di utilizzare il fixingdell’oro come mezzo per implementare il ruolo dello yuan come moneta globale di scambio dovesse dare troppo fastidio a qualcuno, tutte queste sfide potrebbero tramutarsi in armi nelle mani del nemico di turno. E quando Soros minaccia, meglio dormire con un occhio aperto.
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