A quanto pare, ci siamo; mercoledì il governo Berlusconi toglierà l’ICI, l’imposta comunale sugli immobili.
L’ICI è stata introdotta a partire dal 1993 come imposta per il mero possesso di un immobile, indipendentemente dall’uso al quale esso è destinato, e viene riscossa direttamente dal Comune su cui insiste il fabbricato, nella misura prevista da apposita delibera del Consiglio Comunale.
L’istituzione dell’ICI intendeva consentire il reperimento di risorse su base locale portando ad una drastica riduzione dei trasferimenti di fondi da parte dello Stato centrale, e attualmente l’ICI rappresenta una delle principali voci di entrata dei Comuni.
I dettagli dell’operazione che verrà varata dal nuovo Governo non sono ancora definiti (prima casa, tipologie di fabbricato, ecc.), ma il provvedimento fa molto discutere perché, a detta degli oppositori il nuovo provvedimento, l’ICI era una forma di federalismo fiscale ante litteram, nel senso che il Comune attraverso una specifica imposta patrimoniale andava a coprire il fabbisogno previsto tassando in maniera “oggettiva”, e cioè le proprietà. Allo stesso tempo il cittadino poteva chiedere conto ai propri amministratori locali sull’utilizzo delle risorse reperite.
In realtà sappiamo che il catasto è quanto di più arcaico esista nel nostro Paese, che le rendite catastali non sono aggiornate e che talvolta il patrimonio è frutto di generazioni precedenti e mal si adatta al reddito di chi, fortuna sua, ne può beneficiare ora.
A questo si aggiunga che l’intenzione dichiarata del nuovo esecutivo è quella di favorire la capacità di acquisto delle famiglie e per questo verrebbero esentate dal pagamento dell’imposta solo le prime case (2,2 miliardi di euro il valore da versare nel 2008 a favore dei Comuni italiani).
La questione aperta è quindi la seguente: come i Comuni finanzieranno i servizi al cittadino? I sindaci sono con il fiato sospeso, ma proprio qui sta la possibile innovazione e cioè se gli enti locali sapranno offrire servizi di valore e rendere “rendicontabile” il loro operato.
Il Prof. Giavazzi, scettico sul provvedimento governativo, sul Corriere di ieri cita il caso della cittadina in cui vive (!) nel Massachusetts che ha indetto un referendum per far decidere ai cittadini se aumentare una imposta “tipo ICI” per finanziare il rinnovo di un edificio scolastico; questo intervento comunale porterebbe a migliorare la qualità dei servizi scolastici e quindi ad un aumento delle rendite immobiliari. In questo senso giustifica un’imposta sulla casa.
Forse il preside delle scuola americana è anche libero di scegliersi gli insegnanti, mandare via chi non lavora e dare borse di studio ai meritevoli, ma questa è altra storia.
Quella descritta da Giavazzi, a mio parere, è esattamente una tassa di scopo, cioè la richiesta ai cittadini di condividere oneri e benefici di un progetto, non un’imposta che grava solo su chi possiede un immobile, magari solo la prima casa.
Il punto quindi rimane sul livello dei servizi e mi permetto anch’io un esempio; tanti Comuni italiani hanno recentemente privatizzato le municipalizzate che forniscono energia, acqua, gas e altri servizi locali (pulizia dell’ambiente e persino pompe funebri). Gli asset patrimoniali (reti, capitali,) avevano raggiunto una notevole consistenza grazie alla fiscalità di varie generazioni in decine e decine di anni. Oggi quegli enti sono diventate società per azioni quotate in Borsa. Qual è la mission di queste società? Aumentare i dividendi a favore degli azionisti (tra cui il Comune), ridurre le tariffe, offrire servizi di maggior qualità, valorizzare la brand equity? Quanto dell’operato di queste società viene attribuito ai Comuni (nel bene o nel male)?
Il taglio dell’ICI sarà una mossa efficace se non verrà sostituto da trasferimenti dall’Amministrazione centrale e se verrà accompagnato da altri provvedimenti che portano il cittadino a valutare la qualità dei servizi locali offerti, compreso quelli delle ex municipalizzate, che sono una delle casseforti della propria città.