Nelle nostre conversazioni usiamo spesso l’espressione eterogenesi dei fini. Il significato di questa espressione è semplice: un costrutto umano, istituzione, associazione, ecc., nato per perseguire determinati fini, strada facendo ne persegue altri. Gli esempi in proposito sono moltissimi, ciascuno di noi potrebbe ricordarne a iosa. Si potrebbe dire che l’eterogenesi dei fini è talmente diffusa da essere non una patologia della società, ma un aspetto della sua fisiologica vita.
A questo penso quando leggo o ascolto le notizie sulle agenzie di rating e sui commenti che la loro azione provoca. Perché? Perché esse, alla loro nascita, che può collocarsi agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, erano state concepite da dei veri e propri innovatori del sistema capitalistico, innovatori che erano anche dei moralisti. Non a caso nascono dopo la grande tempesta della speculazione finanziaria di fine Ottocento e dei primi del Novecento scatenata dai cosiddetti Robbers Barons contro i quali la magistrale penna di Thorstein Veblen scrisse pagine esemplari in The Theory of the Leisure Class.
Di che cosa si trattava? Si trattava di trovare un mezzo grazie a cui non si potessero più vendere lemmons, ossia detto in parole povere “sole”, a investitori malcapitati e sprovveduti. Le società che vendevano azioni erano sottoposte a un rating, cioè a una valutazione classificatoria che ne misurava il grado di affidabilità nel breve, nel medio e nel lungo periodo. Naturalmente tutto quello che nasce nel sistema capitalistico diventa merce e quindi via via i fondatori delle agenzie di rating, che son più o meno quelle di oggi, non solo si facevano pagare in modo continuativo dalle aziende che valutavano, ma via via che gli affari crescevano, con l’ampliarsi della borsa, inclusero nel loro capitale sociale nuovi azionisti, che spesso coincidevano e coincidono con alcune delle istituzioni che esse, un tempo, valutavano a pagamento.
Ma un’altra forza del capitalismo è anche quella di trovare una giustificazione razionale ai conflitti di interesse possibili. Questa giustificazione razionale risiede nella parabola che gli economisti liberisti spesso ripetono: se un’organizzazione che agisce sul mercato non funziona, il mercato, che è sempre razionale, ne decreterà la morte. Quindi se le agenzie di rating sono sopravvissute, che so alla delegittimazione che ebbero, per esempio, con la crisi del ‘29, quando un sacco di triple A crollarono rovinosamente, oppure al crollo più recente della Lehman Brothers, valutata come si fa con le stelle del firmamento, se esse non sono state eliminate dal mercato, la ragione di ciò risiede nel fatto molto semplice che sono esse stesse a fare il mercato, con una tale forza e capacità egemonica che sopravvivono a ogni forma di smentita che dallo stesso mercato (sic!) promana. Perché questo è il nodo vero: certo, il conflitto di interesse esiste, perché chi le possiede, le agenzie, può manipolare i titoli come meglio crede, ma dire ciò mi si perdoni, è cadere in una banalità.
La verità è che, per coloro che operano e credono nei cosiddetti mercati, è necessario (pena il suicidio morale) dimenticare i fallimenti delle agenzie di rating e questo perché il nuovo mercato finanziario, ormai la recente crisi lo ha dimostrato, è l’unica forma di mercato dispiegato che, per coloro che credono nella sua perfezione, non sopporta di essere messo in discussione. Infatti, questa nuova forma di mercato per continuare a esistere non ha bisogno di comportamenti virtuosi e tanto meno di morali di sostegno. Il mercato, che abbiamo in mente, che aveva bisogno di tutto ciò, era quello precedente la deregulation reaganiana, prima dell’avvento dell’Itc grazie a cui schiacciando un bottone e applicando una formula matematica compro e vendo migliaia di titoli per bilioni di dollari. Questo mercato è la quintessenza della reificazione e del rischio permanente e non ha nulla a che vedere con la struttura industriale, concreta, in carne e ossa, della società capitalistica e di ciò che rimane del mercato industriale.
Le agenzie di rating sono sopravvissute a tutti i loro smacchi, a tutte le loro failures, perché di esse vi è bisogno: sono la foglia di fico, sono come la parabola di Menenio Agrippa che giustifica lo sfruttamento di una classe sull’altra, sono come la corporate social responsability, in cui a parole primeggiavano i capi malfattori di Enron. A conferma della mia tesi cito il fatto che si è cominciato a lamentarsi delle agenzie di rating solo quando queste hanno investito i titoli del cosiddetto debito sovrano, cioè si sono mosse all’attacco degli stessi stati, fenomeno che si è accentuato quando l’indipendenza delle banche centrali dalla politica ha enormemente favorito la speculazione e la manipolazione bancaria. Ma anche qui si è proceduto per gradi. Finché gli stati erano la Thailandia o quelli dell’America del Sud, si poteva transigere. Quando invece le agenzie, spesso fortemente legate a segmenti dei partiti politici nordamericani, hanno cominciato ad attaccare gli stessi Stati Uniti e gli stati della zona Euro, valutandone, come del resto facevano già da anni, l’affidabilità finanziaria, l’allarme rosso è suonato. Un po’ tardi, tuttavia.
Nel mentre, fatto inusitato, una grande parte degli investitori istituzionali ha iniziato a dubitare della stessa affidabilità delle agenzie di rating. Non si capisce ancora bene per quale ragione. Si potrà emettere un verdetto solo tra qualche tempo. Per ora basta dire che forse l’oligopolio delle agenzie si è esposto troppo e ha sottovalutato il ruolo che gli stati ancora svolgono nell’economia, tramite la tassazione e tutto ciò che cade sotto i poteri del legislativo. Le agenzie di rating dovrebbero spendere un sacco di soldi per sviluppare una così fitta rete di lobby, come del resto già fanno, che possa renderle immuni definitivamente e in ogni parte del globo, dalle rappresaglie che le classi politiche universali possono scatenare contro di loro. Ma a questo punto i costi supererebbero i favolosi guadagni che esse conseguono con le loro spericolate speculazioni.