Al Meeting di Rimini Enzo Moavero, giurista, ministro per gli Affari europei nei governi Monti e Letta, profondo conoscitore dell’Unione Europea, ha parlato sul tema “Quo vadis Europa?”. La sua analisi non è rassicurante.
Professor Moavero, dove sta andando l’Europa?
L’Europa è certamente in grandi difficoltà. Non solo si dubita della sua linea di direzione, ma perfino della sua identità e della sua stessa sopravvivenza. Ma per capire perché, occorre fare un passo indietro. Il processo d’integrazione europea ha avuto una forte sintonia con l’opinione pubblica fino a che ci si è occupati soprattutto di questioni legate al funzionamento di un grande mercato di libero scambio; e fino a che è rimasto vivo il sogno o per meglio dire, il progetto di una futura unione federale.
E quando si rompe il giocattolo?
Si rompe progressivamente, a causa di una rapida, inedita sequenza di avvenimenti imprevisti. Il primo è un evento positivo: la fine del sistema sovietico e la fine della divisione dell’Europa in due.
La caduta del Muro, insomma.
Sì. Segna l’apogeo dell’idea originaria di Europa comunitaria: che, di fronte al cambio di passo della storia, sente forte la responsabilità del momento e fa il passo importante di un allargamento rapido; che si verifica nel giro di quindici anni, dall’89 al 2004, quando l’Ue passa da 12 a 25 Stati membri.
Possiamo passare in rassegna gli altri fattori?
Il secondo evento è la crisi economico-finanziaria. Arriva dagli Usa, colpisce prima i paesi europei vicini alla loro economia, per esempio Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, in parte la Germania. Poi trova, un rilevante punto debole, negli assetti asimmetrici dell’Eurozona.
In che modo?
Da crisi finanziaria che colpisce soprattutto le banche, diventa crisi “sovrana”. In Europa trova un contesto in cui Stati che condividono la stessa moneta e la stessa banca centrale, hanno però economie e conti pubblici nazionali molto diversi. Allora, gli investitori si ritraggono dai paesi più a rischio e si manifesta pesantemente la speculazione negativa che accompagna le crisi economiche.
In altri termini, si scommette sulla distruzione dell’unione economica e monetaria.
Temo di sì. Nasce come scommessa economica, ma diventa rapidamente una scommessa politica, perché significa scommettere sulla reversibilità dell’Europa, sulla capacità degli Stati membri di restare uniti. Si apre così la fase delle regole più rigorose, più severe; ma l’elemento più saliente e la fine di un tabù.
Siamo alla crisi greca?
Esattamente. Parlare per oltre due anni di un’eventuale, possibile uscita della Grecia ha voluto dire — e per la prima volta — mettere in forse la tenuta stessa dell’Eurozona e dunque, dell’Ue. La crisi fa venir meno l’idea dell’irreversibilità del processo d’integrazione europea. Se ricordiamo, c’era una gran confusione: si diceva che se la Grecia usciva dall’euro, non poteva restare nell’Unione, e altro ancora. Una situazione che i cittadini europei percepiscono, istintivamente, come una mutazione politica.
Certo che partire in sei paesi per ritrovarsi, in poco più di un decennio, in 25 e poi in 27, non si chiama gradualità, né cautela politica, attenzione alle condizioni reali.
Su questo si può discutere; ma ci arriviamo. Il terzo grande avvenimento sono le migrazioni. Sono legate al macro-fenomeno della globalizzazione, che non fa solo muovere merci e capitali su scala planetaria, ma — scopriamo presto — anche persone. Ora, attenzione, nella storia è sempre stato così.
Dunque?
Oggi, però, c’è una differenza per noi europei: è la prima volta nella storia moderna — diciamo da Colombo in poi — che l’Europa non è la protagonista attiva delle migrazioni, ma ricopre il ruolo inverso. I migranti vengono da noi, non sono gli europei che vanno altrove. E per alcuni Stati dell’Unione, è un fatto inedito.
Lei cosa pensa di questo fatto?
Ci sorprendiamo, ci intimoriscono le migliaia di migranti che arrivano, in condizioni tragiche, e sembriamo aver dimenticato le decine di milioni di europei — fra i quali, milioni di italiani — che solo fra la fine dell’800 e la metà del 900 sono andati in altre aree del mondo, con un impatto notevolissimo sulle realtà locali.
Quarto fattore, professore?
Le guerre e i conflitti che circondano l’Europa. Situazione idealmente inaccettabile per l’Unione che ha nella pace uno dei suoi valori più alti. Inoltre, ne deriva il dramma del terrorismo negli stessi paesi europei. Anche questa non è una novità: durante le guerre mondiali, nei territori dei belligeranti, erano attive spie e sabotatori; ma adesso, noi europei vogliamo ancora credere di non essere in guerra. Non scordiamo neppure che questi conflitti terribili causano l’esodo dei migranti che cercano rifugio.
Come si arriva alla Brexit secondo lei?
Penso sia un evento con matrici lontane nel tempo. Da una parte la Gran Bretagna, da sempre euroscettica, godeva dalla metà degli anni ottanta di uno status peculiare, di molte eccezioni. Dall’altra, la stessa Unione Europea non è riuscita, dopo il grande allargamento, a darsi un assetto più maturo. Sintomatico è il rigetto della cosiddetta costituzione, respinta da due referendum in due paesi fondatori delle Comunità europee, Francia e Olanda. Aggiungiamo gli sconvolgenti avvenimenti di cui dicevamo più sopra e la delusione delle aspettative nella capacità di reazione dell’Ue. Il risultato è che uno Stato, già non completamente integrato, ha deciso di uscire. Così, la Brexit concretizza, sebbene in un contesto ben diverso e di scelta volontaria, quanto poteva accadere alla Grecia.
In che modo il caso della Grecia prepara la Brexit?
Con la Brexit, per la prima volta, un paese lascia l’Unione. La reversibilità diventa reale. Per la Grecia era diverso, tirava aria di espulsione, di punizione; non scordiamo che in tedesco la parola “Schulde” significa colpa, debito e peccato. Comunque sia, gli europei si chiedono: ma che Unione è questa, se perde “pezzi” e non risolve i problemi che ci preoccupano tanto?
Risultato?
L’idea che l’Europa non funzioni più, si diffonde e questo può creare le premesse di un suo sfarinamento.
Che cosa la preoccupa di più, e che cosa dobbiamo fare adesso?
L’Europa spesso è sguarnita. Mentre sul piano dell’economia ha una sua scatola con tanti utensili, che forse ha usato male o in tempi troppo lunghi; di fronte alle migrazioni ne ha pochi e dovrebbe mettersi subito a legiferare per dotarsene. Sul piano, poi, delle guerre e del terrorismo, è ancor meno attrezzata; le regole comuni sono generiche.
Tradotto, professore?
Non si legifera solo attraverso il Parlamento Europeo, servono accordi tra governi nazionali e latitano. Certo, esiste l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune: ma assorda il suo silenzio operativo di fronte alle tragedie quotidiane, fatti salvi alcuni appelli. Ecco un istituto che dà l’idea di un’Europa inadeguata.
C’è pochissima Europa…
C’è pochissima Europa laddove non ci sono norme comuni europee. L’Unione vive di competenze delegate, se non le sono attribuite non può fare nulla. C’è una responsabilità degli Stati europei, che non trovano gli accordi necessari ad attivare strumenti più efficaci e a dotarsi di quelli necessari.
Dovremmo rottamare ciò che resta delle sovranità nazionali?
Qui arriviamo al punto: ma il problema è più politico che istituzionale. Sono le azioni concrete dei padri dell’Europa — Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet, Spaak — che hanno innescato lo storico processo d’integrazione europea; nei risultati reali, hanno valso molto di più delle pur ammirevoli intenzioni di chi immaginava subito gli “Stati Uniti d’Europa”. Una realizzazione enorme, impressionante, iniziata appena cinque anni dopo una guerra totale. La lungimiranza politica di queste personalità, trasferita all’oggi, risponderebbe alla sua domanda. Ma lei vede in giro leader di quella tempra?
Non proprio. Cosa farebbero?
Scelte concrete che vanno nella direzione di ciò che serve e rapidamente: una stretta collaborazione in nuovi campi; una “Fbi” europea e forze di sicurezza comuni; un bilancio dell’Ue che renda possibile una significativa spesa “federale”, per creare crescita e lavoro, tutelare il risparmio, alleviando i conti pubblici nazionali. Bisogna ispirarsi al grande coraggio che ebbe chi costituì la Ceca: una cosa rivoluzionaria, se si pensa che le due guerre mondiali erano scoppiate anche per controllare le miniere e le industrie del carbone, del ferro e dell’acciaio.
La carta di identità politica di quei leader?
I padri dell’Europa reale avevano molto in comune: erano quasi tutti politici di partiti cattolici, condividevano la visione universalista, che superava le frontiere; erano dei politici realisti, costruivano la pace e la solidarietà fra i popoli, un’economia sociale di mercato. Hanno avuto il coraggio e la capacità di indicare la strada in parlamenti divisi e con l’opinione pubblica perlopiù scettica. Oggi abbiamo leader che badano prevalentemente all’interesse nazionale e incolpano l’Europa, nominandola in terza persona, quasi per far dimenticare che loro stessi ne sono parte integrante e determinante. Così, i leader sono diventati dei follower, proprio nel senso social che si intende oggi: decidono in base ai like, ai favori dei sondaggi preventivi.
Quale scenario vede?
C’è il rischio che chiamo dello sfarinamento europeo: la Brexit potrebbe essere il primo passo; poi c’è chi teorizza l’uscita dall’euro e altro. Ma ci sono anche altri due scenari, oltre a quello migliore e auspicabile per il quale battersi e cioè il virtuoso salto di qualità europeista.
Quali sono?
Il primo è quello della mutazione dell’Europa. Alcuni paesi europei, quelli che hanno più in comune tra loro, dicono: l’Europa come l’abbiamo immaginata per 60 anni non funziona, uniamoci solo noi in modo coeso, magari federale, e teniamo meri rapporti di libero scambio con gli altri.
E’ una strada sensata?
Il problema è capire chi sarebbero i protagonisti di una simile operazione. Niente garantisce che tutti i sei paesi fondatori degli anni 50 sarebbero presenti; temo che il blasone dei fondatori sia un po’ come quello di certi aristocratici squattrinati che, ogni tanto, viene rispolverato per celebrare un passato che non c’è più. Il punto fermo è, invece, che non esiste alcun’ipotesi di Europa degna di questo nome che non includa Francia e Germania.
La domanda che ci riguarda diventa scontata…
Ci sarà l’Italia? De Gasperi seppe unirsi al gruppo dei paesi centroeuropei: la sua Italia aveva pochissimo carbone e ferro, una siderurgia appena rinascente, eppure…. Oggi, abbiamo un problema simile e dovremmo trovare un De Gasperi, per convincere gli altri possibili partner a restare uniti a chi porta in dote il secondo debito pubblico più alto al mondo e ha un economia che stenta e non cresce.
Diceva di un altro scenario possibile.
Quella inerziale. Un’Europa che cerca di contenere la situazione, con provvedimenti limitati, sperando che il futuro migliori e aiuti a risolvere i problemi.
Si continua a parlare di flessibilità.
Trovo che parlarne eccessivamente sia un errore. Dovremmo sì chiedere spesa pubblica per investimenti, ma a livello europeo, usando il bilancio Ue, non quelli nazionali.
Perché non si riesce a fare?
Perché l’Unione ha un bilancio minuscolo, pari all’1% del Pil totale, quando il bilancio federale degli Usa è quasi il 25%. Così ogni Stato deve usare il proprio per stimolare l’economia, spendendo o i soldi che ha o se non ne ha, facendo debiti. Tutto questo non fa altro che amplificare le asimmetrie fra i paesi dell’Unione. Vogliamo ripartire da qui? Facciamolo, congeliamo la situazione dei singoli Stati così com’è oggi e dotiamoci di strumenti finanziari europei. Ma servono scelte politiche forti e coraggiose.
(Federico Ferraù)