Le dichiarazioni di Sergio Marchionne al sito del quotidiano canadese Globe and Mail a margine dell’assemblea UBS di cui resta vicepresidente rappresentano la “risposta dovuta” alla tesi rilanciata il giorno prima dal Breakinkgviews del New York Times, secondo il quale in realtà la trattativa tra Fiat e Chrysler non è affatto ciò di cui l’auto americana ha bisogno.
Chi ha seguito con continuità le cronache del terribile 2008 dell’auto Usa sa che si tratta di una polemica ricorrente. Ricordo a tutti che l’ultimo mese di vendite con un segno positivo di auto negli Usa risale al novembre 2007 (per altro tre soli mesi positivi nell’intero anno) e da allora mese dopo mese il calo è proseguito sino agli ultimi quattro, superando il 35% di media mensile.
Di conseguenza, in un mercato interno che dopo 15 mesi di caduta verticale ha preso a interrogarsi sul serio intorno a un’amarissima realtà di un buon terzo di capacità produttiva in eccesso da parte dei gruppi domestici, non bisogna stupirsi che molte e autorevoli voci – ora che si tratta di passare alla seconda decisiva tornata di aiuti pubblici da parte del contribuente Usa – siano convinte di quanto rilanciato dal New York Times. E cioè che all’America servirebbe soprattutto una megafusione-razionalizzazione tra General Motors e Chrysler, più che alleanze della più piccola con partner esteri, che lascerebbero irrisolto il guaio del colosso numero uno.
Nella seconda metà del 2008, GM e Chrysler in realtà hanno passato settimane intere, in due diverse tornate, a confronto serrato sull’ipotesi, ma non ne venne fuori nulla di promettente (Bob Nardelli, presidente e Ceo di Chrysler, ha del resto esaminato circa una decina di ipotesi diverse, prima di cercare di “stringere” con Fiat).
Nel dettaglio, i numeri con i quali il NYT ieri ha riproposto il matrimonio “all american” hanno un pregio che è anche però il loro più che sostanziale difetto. Si riferiscono esclusivamente all’ordine di grandezza dei debiti finanziari, previdenziali e con il Tesoro dei due gruppi sommati. Stiamo parlando della bellezza di 91 miliardi di dollari. Se Gm rilevasse i segmenti dei veicoli commerciali, pickups, Suvs e Jeep di Chrysler, ne verrebbero 5 miliardi di dollari di sinergie, il cui valore attuariale stimato su scala triennale da solo varrebbe più dei 23 miliardi di dollari che la sola Chrysler deve oggi a banche, fornitori, dipendenti e contribuente americano.
Sulla base di un merger totale tra i due gruppi valutato oggi dal NYT – con grande generosità – intorno ai 60 miliardi di dollari di valore netto, anche se lo Stato dovesse iniettare 40 miliardi di dollari, ciò significherebbe una copertura a garanzia del 50% del passivo patrimoniale, ben superiore a quella che oggi è in grado di offrire qualunque banca al mondo, ma in grado di essere garantita da prospettiva di futuri utili in base a strategia di efficienza draconiane.
Il difetto di questo ragionamento, appunto, sta nella sua forza: quello cioè di considerare unicamente le grandezze finanziarie in gioco, e di ignorare del tutto le caratteristiche aziendali e manageriali, le filosofie produttive e commerciali di GM e Chrysler. Cioè esattamente ciò che in passato ha fatto fallire moltissime fusioni nell’auto, ultima proprio quella tra Daimler e Chrysler.
Ma che si tratti di una tentazione molto forte per la politica americana, è fuori discussione. Per questo Marchionne ha risposto con energia e durezza. Apparentemente l’interlocutore al quale ha rivolto il messaggio è il sindacato, lo Uaw negli impianti Chrysler americani e il Caw in Canada. O il sindacato accetta di venire a miti consigli, oppure per Fiat non se ne parla.
Non si tratta solo di adottare retribuzioni per flessibilità simili a quelli praticati negli impianti americani dai produttori giapponesi, ma anche di accettare la trasformazione in capitale di buona parte dei 7 miliardi di dollari di credito previdenziale in forma di obbligazioni detenuto dai sindacati stessi. Altrimenti, i 6 miliardi di dollari di risorse pubbliche aggiuntive non basterebbero affatto, come liquidità necessaria ad andare avanti nella razionalizzazione alla base del matrimonio italo-americano. E sarebbe molto difficile convincere le quattro maggiori banche creditrici – Jp Morgan, Citi, Goldman Sachs e Morgan Stanley – ad abbattere nell’ordine del 70% i 7 miliardi di crediti che vantano presso Chrysler.
Come si vede, Marchionne ha in corso una battaglia da 20 miliardi di dollari, di poco inferiore al totale delle passività patrimoniali complessive del gruppo americano che si candida a salvare per salvarsi a propria volta. Sommiamoci anche una richiesta di aiuti pubblici americani da parte della propria controllata CNH Capital, che deve 5,2 miliardi di dollari a Fiat, ed ecco che il combustibile per procedere nella fusione potrebbe essere non del tutto disprezzabile.
Ma la vera differenza è che Torino offre una prospettiva industriale, rispetto alla mera sovrapposizione tra GM e Chrysler. Aprire in Italia a Chrysler i propri concessionari in cambio della stessa cosa per i propri veicoli negli Usa, e due modelli italiani direttamente prodotti negli stabilimenti americani, Fiat 500 e Alfa 149, quattro pianali di piccole e medio-piccole, i propulsori 1.4 e 1.8 T-Jet e il futuro cambio a doppia frizione (un sei rapporti chiamato G365). In cambio Alfa otterrebbe il pianale LX, vale a dire l’architettura a trazione posteriore della Chrysler 300C, sulla base della quale potrebbe finalmente nascere l’eterna promessa 169.
Se il mercato americano dovesse ripartire entro un semestre e con il costo del carburante non oltre i 2,5 dollari al gallone invece dei 4 toccati l’anno scorso, effettivamente il piano industriale di Marchionne potrebbe rivelarsi eccessivamente ottimista, sul riscontro effettivo che nel mercato Usa potrebbero avere i modelli italiani. In caso contrario, la via italiana sarebbe una diversificazione tale da garantire a una Chrysler in scala ridotta prospettive, marchi e modelli propri diversi da quelli della semplice sparizione – giocoforza se a dettare le danze fosse il gigante GM.
Il sindacato però sarà molto sensibile a voci come quella del NYT. Apparentemente, in caso di fusione GM-Chrysler i sacrifici da fare sarebbero molto maggiori, e alla politica come al sindacato una simile prospettiva potrebbe convenire solo se entrambi i gruppi passassero per un energico fallimento pilotato con il Chapter 11. Le banche creditrici spingono in quest’ultima direzione.
Per Marchionne, quindi, la strada è in salita. Ma se consideriamo la vicenda dal punto di vista degli interessi di Torino e dell’Italia, a Marchionne si può essere solo grati per la convinzione e la forza con cui ci sta provando.