Dunque le prime promesse vengono mantenute: via l’Ici sulla prima casa e sì alla flat tax (10%) sugli straordinari per i redditi medio bassi del settore privato (fino a 30mila euro). Si tratta di misure largamente annunciate nella campagna elettorale della PDL e perciò in qualche modo scontate sia per gli esperti che per il largo pubblico. L’Ici per altro era già stata parzialmente ridotta dal governo Prodi, di modo che la misura completa un percorso già intrapreso. Alla fine, alle famiglie, specie se di lavoratori dipendenti, resterà qualche centinaio di euro in più all’anno, che male non faranno, ma che di certo non basteranno a risolvere i problemi economici in cui il caro vita le ha poste.
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Ma la notizia vera sembra un’altra: la perdita di gettito, stimata in circa 3 miliardi di euro, lo 0,2% del Pil, non verrà compensata con altre imposte. È vero che il ministro Tremonti sta studiando la revisione delle regole di determinazione delle basi imponibili delle banche, agendo, sembrerebbe, sulla deduzione degli interessi passivi cui esse hanno diritto in modo pieno, al contrario delle imprese di altri settori che sono sottoposte a varie restrizioni, ma il dato di fondo, sotto il profilo tecnico formale, è che la manovra non ha una copertura diretta e immediata in maggiori entrate da altre fonti, ma verrà compensata solo da risparmi di spesa. L’azione sulle banche, rinviata ad altro momento, avrebbe così una mera valenza di allineamento della loro fiscalità a quella del resto del mondo imprenditoriale, eliminando agevolazioni non giustificate dalla pinguitudine dei loro bilanci, e non di misura compensativa.
Insomma, Berlusconi manda un segnale di tendenza che speriamo sia la cifra finanziaria dell’intera legislatura: vuole ridurre le tasse e agire sulle spese e non semplicemente redistribuire o differenziare un carico fiscale invariato.
Mi aspetto reazioni dall’opposizione e dai circoli europei: si parlerà di populismo fiscale a spese della solidità del bilancio nazionale, tornerà l’immagine di un governo cicala a danno della credibilità finanziaria del Paese.
Ma la verità è diversa. Ci sono infatti due modi di ridurre il debito pubblico: aumentare le tasse e agire sulla spesa pubblica, contenendone la dinamica, o ridurre le tasse e lasciare che la spesa pubblica si aggiusti di conseguenza, incentivando la crescita economica. Se il problema è il rapporto debito/Pil la prima attitudine agisce prevalentemente sul numeratore, la seconda sul denominatore.
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La prima formula richiede un governo fortissimo, in grado di contenere gli appetiti delle corporazioni, cosa assai difficile politicamente per la bulimia del settore pubblico. Peraltro, ad ogni aumento di gettito si contrappone una riduzione della spesa per consumi e per investimenti e un retro-effetto negativo in termini di sviluppo economico. Il saldo spesso è a somma zero o quasi.
La seconda formula tende ad affamare la bestia della spesa pubblica e a scommettere sull’effetto virtuoso che lasciare i soldi in tasca a famiglie e imprese può avere sul Pil.
La vicenda prodiana del tesoretto, l’extragettito creatosi nel 2006, sta a dire quanto sia illusorio pensare di potere ridurre il debito pubblico incrementando le risorse della fiscalità. I soldi sono usciti dalle famiglie e dalle imprese e sono finiti nella fornace del debito pubblico, senza alcun effetto sensibile sulla posizione finanziaria netta dello stato.
Invece, re-immettere nel circolo dei consumi 3 miliardi di euro può servire da stimolo all’economia e contribuire a riattivare una crescita da troppo tempo languente da che l’Italia è sotto il tremendo peso della moneta unica e del vincolo di bilancio.
Ma le tasse non si misurano solo in quantità ma anche in qualità. Se l’abolizione dell’Ici sulla prima casa difende il bene primario dell’abitazione in una congiuntura così difficile per i portatori di mutui immobiliari, sovvenendo bisogni fondamentali delle famiglie, la parziale detassazione degli straordinari ha lo scopo di incidere sulla produttività del lavoro, incentivando all’incremento della produzione. Ciò, lo si spera, avrà un esito positivo sugli utili delle imprese e, per questa via, sulla produzione nazionale.
Berlusconi, dunque, scommette non sulla ragioneria avulsa dalla realtà, come ci aveva abituato il trio Prodi, Padoa Schioppa, Visco, ma sulla libertà. Il rientro dal debito pubblico, che è il vero grande problema nazionale, deve avvenire non spremendo oltre misura i contribuenti ma aiutando l’economia a crescere più, molto più del debito. È una scommessa forte che contiene tutta la linea della politica berlusconiana e che bene ha fatto il premier a giocare fin dal suo primo atto di governo.
Adesso bisogna continuare: da una parte governare la fiscalità delle partite iva attraverso la politica concertativa degli studi di settore, anche attraverso misure di tipo concordatario, che sdrammatizzino il rapporto fiscale, e scambino prevedibilità degli imponibili con tranquillità fiscale, dall’altra ridurre le imposte dirette sulla produzione e sulle persone. Insomma: arrivare quanto prima a una imposizione sul reddito d’impresa che sia sotto il 30% (Irap compresa) e ristrutturare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche, così come Berlusconi volle ma non potè fare nel suo secondo mandato.
Meno tasse, più libertà economica, più sviluppo, meno debito: ecco la formula magica del risanamento italiano. Mi pare che siamo nella giusta direzione.
(Foto: Imagoeconomica)