“Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”, ripeteva Giovanni Trapattoni, vecchia bandiera milanista. Un adagio che un tifoso rossonero come Matteo Salvini dovrebbe avere più presente. Il segretario della Lega credeva che il dossier Lombardia fosse cosa sua, che il passaggio di consegne tra il rinunciatario Roberto Maroni e il carneade Attilio Fontana fosse una faccenda acquisita. Non è così. Silvio Berlusconi è stato scioccato due volte: la prima per il passo indietro del suo ex ministro, la seconda per la scelta di un personaggio di terza fila. Qui si rischia di perdere tutto, pare sia sbottato il Cav, che ha immediatamente ordinato sondaggi sul nome di Fontana parallelamente al gradimento di Maria Stella Gelmini.
Con il passare del tempo, il caso Maroni sembra trasformarsi in un caso Salvini. Tutti si chiedono quale sia il gioco dell’ex governatore, quali siano i “motivi personali” che lo hanno indotto a uscire da Palazzo Lombardia dopo un solo mandato, quali percorsi machiavellici stia architettando per il dopo elezioni. Ma bisogna anche chiedersi se anche Salvini, oltre che il Cav, sia stato colto di sorpresa: sarebbe davvero sconcertante se il segretario della Lega, un leader in ascesa che governa il suo partito con il pugno di ferro e si lancia in campagna elettorale come candidato premier, non sapesse che uno dei suoi colonnelli di punta, governatore della prima regione d’Italia, stava per alzare bandiera bianca.
Gli uomini di Maroni giurano che Salvini sapesse da tempo. Dall’entourage trapela che il presidente lombardo informò il segretario già a fine novembre, in via Bellerio, durante un vertice dei big della Lega, quindi davanti a testimoni. L’intenzione di non ricandidarsi è stata ripetuta a metà dicembre a Palazzo Lombardia. Prima la sede politica, poi quella istituzionale. Dunque, Salvini sapeva. E si è ben guardato dall’avvertire Berlusconi. Perché ha taciuto lasciando che la bomba scoppiasse a meno di due mesi dal voto?
I veri motivi della scelta di Maroni restano poco chiari. Le sue dichiarazioni sono ambigue. Che Salvini preferisse avvicendarlo era chiaro a tutti, ma se l’ex ministro dell’Interno voleva la riconferma sarebbe stato molto difficile negargliela. Si ipotizza, e non a torto, che il mefistofelico Berlusconi punti a spaccare la Lega dall’interno, a preparare una scissione nel partito alleato, a svuotare dall’interno la minaccia che il segretario del Carroccio possa lanciare un’opa sul centrodestra quando la stella del Cav comincerà a tramontare sul serio. “Ho solo due persone da ringraziare per la mia carriera politica”, ha detto il governatore uscente, “Bossi e Berlusconi”. Un cavallo di Troia spinto dal Cav nelle trincee leghiste. Maroni con le mani libere è una spina nel fianco di Salvini e un’alternativa pronta nel caso in cui il segretario non riesca a raccogliere la messe di voti che lui considera già acquisiti.
Ma forse il punto è proprio questo. Salvini crede di avere già vinto, il vecchio Berlusconi no. E questo allontana i due ancora di più. Una candidatura oggettivamente debole come quella di Fontana potrebbe mettere a rischio il risultato sia a Milano sia a Roma. Invece Salvini credeva che la faccenda fosse chiusa, che lui potesse decidere per tutti, che la Lombardia sia “cosa sua” e che per il dopo Maroni il Cavaliere avrebbe digerito senza fiatare un leghista sbiadito soltanto perché lo voleva sua maestà Salvini. Berlusconi ha lanciato la Gelmini non soltanto perché non vuole prendere ordini dalla Lega, ma perché ha avuto la conferma che Salvini non è poi così furbo. Il Cavaliere teme veramente che Giorgio Gori possa avere un appeal più forte di Fontana sui moderati. I quali — in Lombardia come in Italia — saranno coloro che determineranno l’esito delle urne.