Oggi il Meeting di Rimini prende il via con l’incontro inaugurale dal titolo “Sinfonia dal ‘Nuovo Mondo’. Un’Europa unita, dall’Atlantico agli Urali”, cui partecipa il Premier Enrico Letta. In apertura sarà proiettata una videointervista realizzata da Roberto Fontolan al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ne riportiamo il testo integrale (in ultima pagina il video).
Signor Presidente, innanzitutto desidero ringraziarla per questa bellissima occasione che interpretiamo come un suo segno di amicizia, di stima per il Meeting che comincia oggi e che guarderà e che guarda intensamente all’Europa. Una Europa che, dopo una storia gloriosa di ideali e di inclusioni, oggi sembra però stanca e paralizzata, sembra non mancare quelle grandi visioni di senso che furono così tipiche nel mondo dei padri del dopoguerra o anche nel mondo scaturito dall”89. Di che cosa è malata l’Europa e, soprattutto, come può guarire?
Innanzitutto, vorrei inviare un messaggio di amicizia e di fiducia al vostro Meeting; penso ai giovani che affollano la grande sala di Rimini e auguro loro di dare il contributo che tutti ci attendiamo dalle generazioni più giovani per una nuova fase di sviluppo in tutti i sensi dell’Italia e dell’Europa. Di che cosa è malata l’Europa? La risposta più semplice sarebbe: è malata di mancato sviluppo economico e sociale, non riesce a crescere, sta perdendo velocità, competitività e questo è un dato fondamentale, questo è senza dubbio uno dei fattori fondamentali di crisi dell’Europa. Noi guardiamo al passato e vediamo un passato straordinariamente gratificante; però, attenzione, la crisi che viviamo in Europa, e che è parte di una crisi globale dal 2009, viene da lontano, comincia prima: una perdita di dinamismo dell’Europa è cominciata già parecchi anni fa, più o meno alle soglie del nuovo secolo e nuovo millennio, negli anni successivi alla nascita della moneta unica che non è stata responsabile di ciò, ma non ha potuto dare tutto l’impulso che era chiamata a dare in quanto sono mancati altri elementi fondamentali per garantire nuovo dinamismo alla crescita economica e sociale in Europa. Questo è, senza dubbio, il primo dato e io qualche volta amo dire che per alcuni decenni, più o meno fino agli anni ’80, c’è stata una sorta di marcia trionfale dell’Europa unita. Ogni anno si cresceva, si viveva meglio, si conquistavano nuovi diritti, si aveva un maggior senso di unità. Quando entravano nuovi paesi a far parte dell’Unione conoscevano uno straordinario balzo in avanti: il caso della Spagna è un caso assolutamente clamoroso e, spesso, si trattava di paesi che entravano nell’Europa unita superando esperienze di dittature e quindi era un progresso non soltanto economico-sociale ma civile, politico e democratico.
Perché oggi c’è ancora bisogno di Europa e di quale Europa c’è bisogno?
In Europa siamo in difficoltà, e in parte integro anche la risposta di prima, perché non si è capito da troppe parti, certamente anche da parte dell’opinione pubblica, di molti dei cittadini ma soprattutto non si è capito abbastanza da parte delle classi dirigenti che il mondo stava cambiando e l’Europa non poteva rimanere ferma. L’Europa doveva fare i conti con questo processo di trasformazione che poi ha preso il nome di processo di globalizzazione ma è stato un processo di radicale cambiamento delle realtà e degli equilibri nel mondo. Oggi, perché c’è bisogno dell’Europa? Non c’è più bisogno dell’Europa per garantire la pace interna: questa non è soltanto una speranza ma credo che possa essere una convinzione fondata; però c’è bisogno di essere uniti e più integrati di prima perché altrimenti l’Europa rischia di essere sommersa dal processo di globalizzazione e di perdere peso in modo drastico e di avere una voce sempre più flebile, di non riuscire a esprimere i valori che un lungo patrimonio storico hanno inciso nella identità europea.
Cosa deve fare l’Europa per riguadagnare questa posizione, per non farsi sommergere dalla globalizzazione?
L’Europa deve innanzitutto avere più coscienza di sé, non deve mai dimenticare i presupposti del grande progetto europeo di Monnet, di Schuman, di De Gasperi, di Adenauer che erano presupposti di carattere storico-culturale, quali sono stati gli elementi fondamentali di una identità europea, di una cultura europea che si è costruita anche attraverso incroci molteplici. Ricordo che Papa Benedetto XVI parlava di una cultura dell’Europa nata dall’incontro tra Atene, Gerusalemme e Roma. Tutto questo si è molto attenuato, sbiadito nella consapevolezza – e poi quello che noi abbiamo dato allo sviluppo scientifico, tecnologico, produttivo e sociale del mondo – che il modello europeo è anche certamente qualificabile come modello di economia sociale di mercato ma è anche qualcosa di più, ricco come è, intriso come è di valori civili, di partecipazione, di fratellanza. Ebbene, questo dobbiamo capire che bisogna garantirlo al mondo di domani, bisogna evitare che questo patrimonio si sbiadisca e venga sommerso. Allora, dobbiamo riuscire a competere con paesi che sono cresciuti al di là di ogni previsione possibile soprattutto nel ritmo, nell’intensità e dobbiamo saper reggere le sfide che sono le sfide dell’innovazione, della competitività, della produttività e che sono le sfide di una rimodulazione efficace del nostro modello di economia sociale di mercato.
Anche perché nell’Europa di oggi sembrano prevalere invece tecnicismi, formalismi, relativismi per usare una parola che Papa Benedetto ha usato in tante occasioni.
I tecnicismi ovviamente prevalgono se si discute soltanto in termini di modifiche ai trattati o di nuovi accordi e di nuove regole. Tutto questo è parte essenziale di un processo di sviluppo dell’integrazione però oramai siamo vittime di un linguaggio che è diventato quasi un codice per iniziati. Ogni risoluzione o testo di conclusioni di Consiglio europeo sono lunghi documenti che richiederebbero una traduzione in linguaggio umano, in linguaggio comune, accessibile a tutti i cittadini. Quindi, è chiaro che ha una parte anche la tecnica istituzionale, la tecnica giuridica e, naturalmente, le tecniche delle politiche di bilancio e delle politiche economiche ma ci vuole – ripeto – un forte senso della propria missione come “Europa” in un mondo che cambia radicalmente e che non può perdere il contributo proprio della storia europea e della cultura europea.
Oggi chi sta costruendo Europa? Dove lei vede, se li vede, i segni di un cammino che è ripreso o che continua in modo sereno, importante nel senso delle parole che dicevamo prima?
Io penso che costruiscano l’Europa, oggi, tutti i giovani che si incontrano, tutti i giovani che si riconoscono come europei e non più soltanto come italiani, tedeschi, spagnoli e così via. Non è un omaggio retorico ai giovani in quanto tali ma se si pensa a ciò che ha rappresentato il programma Erasmus si è veramente sbalorditi di quanto abbia contribuito ad avvicinare, a far comprendere reciprocamente anche linguisticamente e nel costume, nelle aspettative, negli atteggiamenti. Ed è lì che si costruisce l’Europa. Si costruisce l’Europa nei grandi centri di ricerca scientifica europei: ho visitato il CERN di Ginevra, ho visitato il Centro di Tecnologie Nucleari nei pressi dell’Aja, in Olanda. Ci sono in ciascuno di questi Centri centinaia e centinaia, anche oltre il migliaio, di ricercatori e di ricercatrici molto giovani che lavorano insieme, che aprono insieme le vie del futuro, non soltanto per il nostro continente, e tendono a riaffermare, non dirò il primato, ma certamente posizioni di avanguardia della cultura e della scienza europea.
Penso che si costruisca “Europa” anche in paesi che sono usciti da fasi molto difficili, innanzitutto i paesi dell’Europa balcanica che sono usciti da una terribile e spaventosa guerra fratricida, orrori che sono stati ricordati anche di recente in tristissimi anniversari come quello di Srebrenica. Il fatto che questi paesi oggi abbiano come obiettivo comune entrare in Europa, alcuni sono già riusciti a realizzare l’obiettivo, la Slovenia e la Croazia, altri bussano alla porta e bisogna socchiudere e poi aprire la porta dell’Europa anche a loro: questi costruiscono “Europa”. Anche un paese, un importantissimo paese della storia europea e dell’Europa centrale, che è la Polonia – che a lungo ha portato con sé il condizionamento di un duro passato che aveva poi anche sviluppato dei complessi di antitesi radicale alla Germania e alla Russia e, direi, perfino al popolo tedesco e al popolo russo – oggi la vediamo all’avanguardia del processo di integrazione europea, guidata da uomini che hanno recuperato e che portano avanti l’esperienza straordinaria di Solidarność. Qui si costruisce “Europa”.
Tornando al tema dei giovani, che ha già toccato Presidente, per loro è evidente che è sempre più naturale viaggiare, studiare, fare, stringere amicizie e rapporti in questa dimensione Europa. Ci sono persone che vedono in questo un affievolirsi di un sentimento nazionale e , quindi, vedono un po’ questo fenomeno con timore; per altri, invece, soprattutto per le fasce di ricercatori, di giovani impegnati nella ricerca scientifica si associa questo fenomeno alla famosa espressione “la fuga dei cervelli”. Lei, come considera questa che potrebbe essere, invece, un senso nuovo di cittadinanza europea?
Io considero assurdo avere timore di questi processi. Ritengo che questi giovani costruiscono un futuro per sé e per l’Europa anche uscendo dai confini storici delle proprie antiche nazioni, lavorando insieme. Bisogna non solo formarsi insieme, bisogna anche creare degli spazi di ricerca e di occupazione in comune. Io non tratterrei mai un giovane dall’andare a studiare o fare ricerca fuori d’Italia, convinto che tra l’altro la sua ambizione sia poi di tornare in Italia arricchito da questa esperienza che ha fatto. Non vedo in questo nessuno elemento di smarrimento dell’identità nazionale che non si cancella ma si integra nell’identità europea. Essere europei non significa cessare di essere italiani, spagnoli, francesi o tedeschi, significa sublimare le proprie storie e vocazioni nazionali.
Il titolo del Meeting è “Emergenza Uomo”, lo dicevamo prima. Ha una sua evocazione personale questo titolo, ha un suo commento su questo tema?
Io credo che l’emergenza che viviamo da questo punto di vista è quella di una grave, grave forma di impoverimento spirituale, culturale, di motivazioni umane, di motivazioni non legate soltanto all’immediato interesse materiale. Chi può reagire a ciò? Può reagire la cultura, possono reagire certamente le istituzioni più di quanto non facciano. Possono reagire i sistemi educativi, può reagire molto di più di quanto non faccia il sistema di informazione e possono molto contribuire le grandi organizzazioni sociali comprese quelle ispirate ad una fede religiosa. In questo senso il contributo che viene ai più alti livelli dalla Chiesa cattolica è un contributo che soltanto dei ciechi possono non vedere.
La ringrazio Presidente e in questo ringraziamento le porto tutto l’abbraccio del popolo del Meeting.
Grazie a lei, molti auguri.
Alla pagina seguente il video dell’intervista